Le complesse geometrie delineate dai tentativi di porre fine al conflitto in Ucraina sono a un punto di svolta. Non è detto che a questo cambiamento seguirà una conclusione in tempi brevi delle ostilità, in quanto Mosca e Kiev si trovano ancora su posizioni lontanissime. Tuttavia il riavvicinamento tra Usa ed Europa e l’incontro di giovedì a Istanbul tra Zelensky e Putin hanno un valore che va al di là dell’apertura dei negoziati.
In primis è impossibile non notare come gli equilibri tra Stati Uniti e Paesi europei, sia nel formato comunitario sia in quello della “coalizione dei volenterosi”, siano dettati dalla convenienza. Quando sabato 10 maggio i leader di Francia, Gran Bretagna, Germania e Polonia (assente l’Italia, che si è limitata a partecipare da remoto) sono arrivati a Kiev per incontrare Zelensky, nessuno si aspettava che a fine giornata si sarebbe usciti con un ultimatum per il Cremlino e che questo fosse sostenuto anche da Donald Trump. Il presidente Usa fino a quel momento aveva sempre relegato gli alleati del Vecchio continente a un ruolo marginale, se non apertamente evanescente. Sia il tycoon sia i suoi fedelissimi avevano ribadito in ogni occasione che non c’era motivo per includere una rappresentanza dell’Ue nei negoziati e avevano bollato le iniziative dei “volenterosi” come velleitarie. In effetti tali erano state fino a quando la Casa Bianca non ha deciso di appoggiarle. «Al termine del vertice con gli alleati europei» ha dichiarato Zelensky, «abbiamo parlato tutti insieme con il presidente Trump e abbiamo concordato la nostra visione comune», divisa in quattro punti: «Per prima cosa la Russia deve accettare il cessate il fuoco incondizionato per trenta giorni. Poi deve proseguire il rafforzamento delle forze di difesa dell’Ucraina». E qui potrebbe inserirsi anche un eventuale contingente esterno, «se la Russia rifiuta si dovranno applicare sanzioni più severe al settore energetico e bancario. Infine continuerà il lavoro sull’uso efficace dei beni russi congelati». Una tale comunione d’intenti tra l’amministrazione Trump e l’Ue non si era mai vista e, anzi, era difficile aspettarsela in un momento in cui la guerra commerciale scatenata dai dazi rischia di minare definitivamente le relazioni tra le due sponde dell’Atlantico.
Ma a Washington si sono resi conto che se le spacconate di Trump andavano bene per l’Ucraina, Putin era molto più difficile da obbligare a un passo concreto. E così è trascorso un mese nel quale “The Donald” si è prima trincerato dietro qualche messaggio evasivo – al netto dei soliti picchi di bile contro uno dei protagonisti e del solito ritornello «se io fossi stato presidente la guerra non sarebbe mai scoppiata» – e poi ha optato per il silenzio. Il Segretario di stato Marco Rubio ha addirittura paventato l’ipotesi che gli Stati Uniti avrebbero potuto ritirarsi se l’impasse non si fosse sbloccata. Nel frattempo la nuova amministrazione ha tagliato il traguardo dei 100 giorni di mandato senza portare a compimento nessuna delle sue promesse e con molti più problemi del previsto a causa del flop dei dazi commerciali.
Intanto Zelensky lavorava pazientemente al riavvicinamento con Washington. Prima l’incontro altamente simbolico a San Pietro davanti agli occhi del mondo, poi le trattative per l’accordo sulle terre rare, portate a compimento ma con evidenti remore del Parlamento di Kiev (che ha specificato che nessun trattato diverso da quello esaminato l’8 maggio sarà approvato) e ora l’aut aut del 10 maggio.
Il simbolismo in una guerra tra simili è fondamentale: il 9 a Mosca si è tenuta la parata per le celebrazioni della vittoria sul nazismo nella Seconda guerra mondiale, insieme a vecchi e nuovi amici tra i quali svettava il presidente cinese Xi Jinping, l’indomani Zelensky ha risposto obbligando Putin a un intervento sulle tv nazionali per spiegare cosa stava succedendo. Il presidente russo non poteva più tacere perché ormai era palese che il riavvicinamento con la Casa Bianca era a rischio. E dunque ha rilanciato: «La tregua di 30 giorni sarà valutata, ma intanto propongo al presidente Zelensky un incontro in Turchia per giovedì 15 maggio». Mossa inattesa e strategicamente impeccabile per continuare a prendere tempo e non mostrarsi chiuso ai negoziati. I politici europei hanno tentato di convincere il presidente ucraino a non cedere a un’offerta che reputavano al ribasso. «Prima la tregua e poi l’incontro» è la posizione dell’Ue, riassunta dalle parole dell’Alta rappresentante per gli Affari Esteri Kaja Kallas. Ma un messaggio sul social network Truth di Trump ha chiarito la via: «Il Presidente russo Putin non vuole un accordo di cessate il fuoco con l'Ucraina, ma piuttosto vuole incontrarsi giovedì in Turchia per negoziare una possibile fine al bagno di sangue. L’Ucraina dovrebbe accettare immediatamente». Tra maiuscolo e punti esclamativi il messaggio era chiaro, e infatti Zelensky ha chiarito che sarebbe andato in Turchia in ogni caso.
L’impressione è che ormai siamo al tutti contro tutti e che ognuno dei protagonisti stia cercando di mettere gli altri nell’angolo per portare avanti la sua strategia diplomatica. Trump ha sfruttato l’Europa (anche se parzialmente obbligato dai suoi fallimenti precedenti, ma sempre da una posizione di forza), Zelensky ha usato Trump per rafforzare la proposta europea decisamente più filo-ucraina di quelle trumpiane delle scorse settimane e Putin ha rilanciato. Al palo e con un ruolo comunque marginale restano i Paesi europei che ora esultano al successo dell’iniziativa dei volenterosi minacciando “sanzioni enormi” a Mosca, ma iniziano già a rendersi conto che la mossa di Putin li ha estromessi di nuovo.