Seraj Ouda ha 20 anni. Dalla Striscia, racconta a L'Espresso come la vita dei palestinesi sia cambiata a partire dal 7 ottobre 2023: le torture dei militari israeliani, il rumore perenne dei bombardamenti, la fame che scava nei corpi. "Gaza è diventata un cimitero di cemento e sabbia"

Voglio che il mondo sappia la verità. Voglio che nessuno possa dire "non sapevo" - Diario da Gaza

Mi chiamo Seraj, ho vent’anni. E questi vent’anni li ho vissuti dentro la guerra. Nella morte. Nell’ingiustizia. Nell’occupazione. Ho vissuto l’infanzia sotto le bombe. Ho attraversato più di sei guerre. Oggi, dopo tutto ciò, sono ancora qui. Ancora vivo, ma non intero. Il mio incubo comincia il 7 ottobre 2023. Un giorno che non dimenticherò mai. Quel giorno la mia vita si spezza, come si spezzano i muri delle case colpite. Come si spezzano i corpi. Il dolore comincia allora e da allora non ha mai smesso. È inciso nella mia carne, nella memoria, nel respiro. Anche se sopravvivo, so che ci vorranno anni per ritrovare me stesso. Se mai sarà possibile.

 

Da quel giorno viviamo solo la distruzione. Gaza è diventata un cimitero di cemento e sabbia. Le bombe cadono ovunque, come pioggia velenosa. Non distinguono. Non risparmiano. Colpiscono tutto: case, scuole, ospedali, strade, sogni, ricordi. La mia università è stata distrutta. La mia casa, anch’essa. Tutto quello che avevo, tutto ciò che dava senso ai miei giorni, si è sgretolato in pochi istanti. Abbiamo cercato di scappare. Di metterci in salvo. Ma anche la fuga è un campo minato. Ci siamo spostati da un quartiere all’altro, sempre sotto le esplosioni. Non c’erano luoghi sicuri, solo l’illusione della sopravvivenza. Ogni volta che pensavamo di esserci salvati, arrivava un altro bombardamento. Passavano i giorni e le notti sotto il fuoco dei carri armati israeliani. Chiusi in casa, assediati dalla paura e dalla fame, abbiamo resistito come potevamo.

 

Poi l’ordine. L’esercito israeliano ci intima di uscire. Le loro voci ci urlano dagli altoparlanti di radunarci. E lì mi prendono. Mi separano dalla mia famiglia, che viene costretta a fuggire verso sud. Da quel momento perdo ogni contatto con loro. Non so dove siano, se siano vivi, se stiano soffrendo. Il silenzio che resta è un vuoto che mi divora. Mi portano via. Mi trascinano in un luogo che puzza di marcio, pieno di rifiuti, umiliazione e paura. Mi ordinano di spogliarmi. Obbedisco. So che ho solo due scelte: morire o cedere. Mi legano mani e piedi. È inverno. Il freddo è insopportabile, come la fame. I militari mi costringono a mangiare cibo avariato. Mi ammalo. Il mio corpo si piega, il mio spirito vacilla. Dopo due giorni, vedo solo il buio. Mi bendano, mi torturano. La paura diventa fisica, un dolore sordo che non se ne va.

 

Poi mi lasciano andare. Ma prima mi minacciano: “Non dire una parola di quello che è successo”, mi ripetono i militari israeliani prima di liberarmi. Volevano costringermi al silenzio, ma da quel momento ho deciso che non sarei mai più stato zitto. È da lì che nasce il mio bisogno di raccontare. Non per mestiere. Per necessità. Perché essere giornalista è l’unico modo che ho per gridare al mondo quello che ci stanno facendo. Scrivo per difendermi. Scrivo per chi non può. Per chi è stato ammazzato. Scrivo perché raccontare è tutto ciò che mi resta. Fotografo, documento, mostro. Voglio che il mondo sappia la verità. Voglio che nessuno possa dire "non sapevo".

 

Dopo giorni di angoscia, riesco a ritrovare la mia famiglia. Non so nemmeno come ci siamo rintracciati. Ci riabbracciamo, ma siamo tutti distrutti. Le nostre condizioni di salute sono disperate. Vivono in una zona del sud dove non c’è niente: né ripari, né cure, né acqua pulita. Neanche un materasso su cui stendersi. Siamo ammassati come bestie, ma almeno siamo vivi. Vivo anche io, ma a pezzi. Passo i miei giorni negli ospedali, cercando un posto, un medico, un po’ di aiuto. Ma gli ospedali sono al collasso. I farmaci sono finiti. Le attese sono infinite.

 

Poi finalmente la tregua, torniamo al nord dove un tempo c’era casa nostra, sperando di poter davvero cominciare a ricostruire la nostra vita. Ma adesso eccoci di nuovo qui, assediati dai carri armati e dalle esplosioni, senza più una briciola di pane da mangiare da quasi tre mesi. Mi porto addosso le ferite delle bombe. Sono sopravvissuto più volte alle esplosioni, ma non ne sono uscito illeso. Il mio corpo è esausto. La mia salute peggiora. Ogni giorno è una lotta. Circa due settimane fa sono sopravvissuto a un bombardamento israeliano avvenuto proprio davanti ai miei occhi. Ed è ancora lì, davanti ai miei occhi, non riesco a smettere di pensare a quella scena. Mi accompagna ogni notte. Le immagini terrificanti di sangue, di pezzi di corpi, e di come il mio corpo sia sopravvissuto, mi tormentano. Vivo in un’ombra perenne. E la verità è che non so per quanto ancora potremo resistere. Non so se vedrò la fine di questa guerra, o se farò parte della conta dei suoi morti.

 

Adesso, mentre scrivo, nessuno dorme. A tenerci svegli non è solo il rumore degli aerei da guerra e dei droni israeliani che rombano sopra di noi a tutte le ore, è anche la fame, che scava dentro i nostri corpi come una bomba silenziosa. Non c’è tregua. Di notte sentiamo le esplosioni. Di giorno cerchiamo cibo. A volte è lo stomaco a svegliarci con i suoi crampi, altre volte sono le urla dei bambini. Nessuno qui riesce più a distinguere i giorni dalle notti. E nel tempo in cui tutto questo accade, il mondo continua a girarsi dall’altra parte. Ma io non taccio. Io scrivo. Perché Gaza non è solo una striscia di terra, Gaza è la mia vita. 

 

Nord di Gaza, 22/05/2025

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