«Un nome, un’età. Un viso. Una biografia». C’è chi ne ha diritto, e chi invece viene nascosto dietro un numero. O forse neanche quello. Un numero arrotondato, spesso per difetto. Alcune persone hanno addirittura «il privilegio della specificità nella morte. E altre sono solo un arrotondamento, il pezzo di un aggregato. Quando scatta questa dicotomia, si crea una gerarchia tra chi è umano e chi non lo è».
È tutta sulle parole e la loro mistificazione, le parole e ciò che nascondono e falsificano, la critica netta e senza appello di Omar el Akkad al giornalismo occidentale. Lo fa dalla sua casa negli Stati Uniti, grazie a un’intervista virtuale che accorcia le distanze. Il suo è un atto d’accusa che poggia sulla sua storia di inviato di esperienza nei teatri di guerra e nel cuore di tenebra del mondo. E l’accusa la lancia dall’interno dell’Occidente. Anzi, se ne considera complice. Nato in Egitto, un periodo importante in Qatar assieme alla famiglia, l’arrivo in Canada, la vita negli Stati Uniti, Akkad ha percorso tutte le stazioni che fa un immigrato, soprattutto se si chiama Omar, è arabo e viene da una famiglia musulmana. Quel razzismo lo ha subìto sin da bambino, osservando anche il modo in cui suo padre veniva trattato diversamente dagli altri, in caso di controlli di polizia. Si sa, ma lo si dà ancora oggi per scontato, questo abuso sottile e reiterato, come fosse la cosa più normale al mondo. Peccato che non sia normale, e che anche questa parola bisognerebbe bandirla dal nostro vocabolario. In questo percorso, però, qualcosa è profondamente cambiato, per Akkad e per tutti noi. Siamo in un tempo di genocidio, il genocidio a Gaza e della popolazione palestinese. Perché genocidio è una parola centrale, nel libro di Akkad, “Un giorno tutti diranno di essere stati contro” (in libreria dal 4 giugno per Gramma Feltrinelli), un testo denso, profondo, dolente, in cui la parola omessa per almeno un anno e mezzo – non solo in Italia – ricorre almeno quaranta volte. Diventa, anzi, cartina di tornasole della nostra incapacità di descrivere quanto sia enorme quello che sta succedendo.
Il libro di Akkad è però ben più di un atto d’accusa sul racconto che l’Occidente fa di Gaza e dell’Afghanistan e dell’Iraq, e di tutto ciò che viene considerato “altro”. È la conferma di una sconfitta etica che proviene da un intellettuale che dell’Occidente si considera, comunque, parte integrante. «Se mi metto nel novero dei giornalisti occidentali, se dico “noi” nonostante mi chiami Omar, venga dal Medio Oriente, e da una famiglia musulmana – spiega Akkad – è perché io suono comunque in questo modo, con il mio accento americano mentre parlo in inglese. Vivo dal lato da cui si lanciano i missili. La mia stessa cultura, quella predominante, è la cultura occidentale. E io sono dunque altrettanto complice».
È Gaza, dunque, il centro della riflessione. È attorno a Gaza la domanda continua sulla disumanizzazione come automatismo, attraverso le parole. E invece, occorre riconsegnare nome e biografia, disarticolare un racconto che dell’umano si dimentica. Anzi, di un certo tipo di umano, non bianco, subalterno. In questo caso, palestinese. In un suo racconto distopico, “2037. La commissione sull’ombra”, uscito in Italiano in un’antologia di Bompiani, il protagonista trova nello scrivere ovunque i nomi delle vittime, anche incisi su un pezzo di legno, l’unico reale atto di resistenza.
«Cosa amavano? Cosa non amavano? In ogni copertura informativa, lo cogli immediatamente, chi è umano e chi no. Per chi viene scelta la foto con un sorriso. Chi ha diritto a un necrologio. E chi invece ha una menzione fugace assieme alla foto di una fossa comune». La critica di Akkad, per primo a sé stesso, ha ormai lasciato il posto a una posizione che non lascia altri spazi d’azione, se non quello di usare le parole nella loro pienezza. «Cerco, nel mio piccolo, di non essere più parte di questo sistema dell’informazione perché è fondamentale spiegare come siamo arrivati al punto che decine di migliaia, centinaia di migliaia di esseri umani siano stati uccisi».
Dei giornalisti palestinesi di Gaza, uccisi in almeno 225 dall’esercito israeliano, i nomi li sappiamo. Sappiamo anche i nomi dei sopravvissuti divenuti simbolo, come Wael al Dahdouh, il capo dell’ufficio di al Jazeera a Gaza, ferito lui stesso, a cui hanno ucciso la moglie, tre figli, due nipoti, il cameraman e almeno altri dieci membri della sua famiglia. «È l’unica foto di un collega che ho nel mio ufficio», dice Akkad. C’è una ragione ovvia, per la presenza di quella foto. «L’ammirazione è perché quello che fa è buon giornalismo. E c’è, poi, il prezzo che ha pagato, per me inimmaginabile, per fare solo il suo lavoro. E la risposta del giornalismo occidentale, per la massima parte, è stata e continua a essere il silenzio». Se il giornalismo rinasce a Gaza attraverso il racconto del genocidio fatto dai reporter palestinesi, cosa dovrebbe fare il giornalismo internazionale? La risposta di Akkad, come lui stesso dice, va contro la sua inclinazione di mettersi ai margini. «Per la prima volta nella mia vita, penso che non sia abbastanza. Penso sia un’altra forma di abdicazione. Non basta, per il giornalismo occidentale, riconoscere quello che è stato fatto e fare spazio ai giornalisti palestinesi per il tipo di informazione che fanno dalla Striscia di Gaza, che a mio parere è esemplare. Non basta. Dobbiamo espiare, fare ammenda per il giornalismo miserevole che abbiamo prodotto e che ci ha fatto arrivare a questo punto». Per espiare, bisogna andare a Gaza e raccontare. Si badi bene, dice Akkad, con una nota tristissima che affonda nel nostro razzismo sistemico, «racconterebbero le stesse storie di orrore, esattamente nello stesso modo raccontato sinora dai giornalisti palestinesi per 19 mesi». E allora? «Avranno, però, un impatto molto maggiore sulla discussione pubblica, perché sarà un bianco occidentale a fare quel lavoro».
E poi arriverà il giorno in cui tutto finirà, scrive Akkad nel suo testo che mette assieme il suo periplo nell’Occidente con il racconto – che non c’è stato – di mondi considerati altri, sotto la cappa del doppio standard. Il tono è quello di un giudizio morale ineludibile di cui noi, europei, occidentali, italiani, dobbiamo farci carico. Tutto finirà a Gaza, scrive Akkad, «con la liberazione, o la pace, o con lo sterminio su scala così macroscopica da azzerare la storia. Finirà quando le sanzioni saranno sufficientemente pesanti, o il costo politico dell’occupazione e dell’apartheid diventerà uno svantaggio. Quando finalmente non ci sarà modo di preservare i propri interessi se non agendo, se non con la volontà potente di agire. Le stesse persone che hanno compiuto il massacro, finanziato il massacro, giustificato il massacro e voltato le spalle al massacro si vanteranno di aver fatto la cosa giusta. È molto importante fare la cosa giusta, alla fine». Morirà Gaza? E noi, noi, saremo ancora vivi?