«La morte di Mario Paciolla va inserita in un contesto di complicità e omertà, che ha coperto e perpetuato sistemi di violenza di massa. Come me, altri ex ufficiali hanno scelto di rompere il silenzio e di riconoscere la verità sui crimini commessi. Ma poco è stato fatto per smantellare quel sistema». La tragica fine del cooperante italiano, trovato senza vita nel suo appartamento a San Vincente del Caguán in Colombia il 15 luglio del 2020, appare ancora più complessa e drammatica alla luce delle dichiarazioni di S. H., colonnello in pensione ed ex comandante della 15esima Brigata Mobile dell’esercito colombiano, oggi rifugiato in Europa. Le parole dell’ex militare e oppositore dell’attuale governo rappresentano un tassello fondamentale per comprendere le dinamiche che hanno portato alla morte di Paciolla e per ricostruire un quadro storico e istituzionale di un Paese segnato da decenni di violenza sistematica. Rivelazioni che portano alla luce prospettive ed elementi inediti.
Per le Nazioni Unite, il 31enne napoletano si sarebbe suicidato; per la sua famiglia e i legali che la affiancano dal primo momento, Mario è stato ucciso perché aveva scoperto crimini e responsabilità di membri della missione Onu nel Paese. Ad avvalorare gli elementi raccolti in questi cinque anni di indagini, le informazioni sulle complicità e i crimini dell’esercito colombiano e le testimonianze di ex ufficiali che hanno vissuto sulla propria pelle le ombre e le luci di numerosi scandali relativi a violazioni dei diritti umani, con il tragico fenomeno dei “falsi positivi”. Si tratta di omicidi extragiudiziali di civili innocenti, fatti passare per guerriglieri morti in combattimento. Secondo un rapporto di Human Rights Watch, almeno 3.700 casi di questi delitti sono sotto inchiesta e si ritiene che molte delle uccisioni siano state ordinate o tollerate dai vertici militari nonché dalla “Missione di verifica delle Nazioni Unite in Colombia” che avrebbe «omesso fatti significativi nei rapporti al termine di sopralluoghi sul campo e manifestato una certa reticenza nei confronti delle testimonianze di chi vive sotto minaccia nel Paese e accusa le Forze armate regolari di uccisioni arbitrarie» come ha rivelato nei mesi scorsi a L’Espresso un ex funzionario dell’Unvmc, incaricata dal Consiglio di sicurezza nel 2017 di monitorare l’andamento dell’accordo di pace e di sostenere i negoziati tra il governo e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, oggi partito politico rinominato “Forza alternativa rivoluzionaria comune”.
Secondo la nostra fonte, Paciolla aveva scoperto che alcuni membri della missione erano coinvolti nella copertura dei “falsi positivi”, che non erano casi isolati ma “misure” sistematiche adottate come strategia di guerra, con ordini impartiti dagli alti livelli della difesa colombiana. La condanna di cinque generali implicati in questi crimini testimonia la fondatezza di tali accuse. «Purtroppo molti altri ufficiali, invece di essere giudicati e perseguiti, hanno proseguito la loro carriera instillando nelle forze militari un senso di impunità che ha favorito il proliferare di violazioni» sostiene l’ex colonnello.
Human Rights Watch ha rilevato il coinvolgimento di almeno 180 battaglioni e unità dell’esercito in questi crimini. L’uccisione di Mario Paciolla, a fronte di ciò che aveva scoperto, appare sempre più come conseguenza di un contesto di violenza strutturata e di impunità diffusa. Paciolla, cooperante italiano impegnato nell’Etcr di San Vicente del Caguán e attivo nel sostenere le famiglie delle vittime delle rappresaglie paramilitari, si era trovato coinvolto in un ambiente politico e militare compromesso. Paciolla aveva più volte espresso preoccupazione per l’incontrollata brutalità delle forze armate, in particolare nell’area del Caquetà, dove l’esercito aveva condotto operazioni caratterizzate da estrema violenza, come il bombardamento del 2019 che causò la morte di otto minorenni. La richiesta di chiarimenti e di verità sulle responsabilità di ufficiali di alto rango erano diventate una priorità per Paciolla, secondo le nostre fonti.
«Mario era mosso da un profondo senso della giustizia. Quando ha capito che c’erano complicità nella missione nel coprire crimini inaccettabili ha detto basta. Non voleva più saperne dell’Onu, voleva tornare a casa. Nostro figlio non si sarebbe mai suicidato» sostengono i genitori di Mario, Anna Motta e Pino Paciolla, che lo scorso 13 maggio hanno presentato con Fanpage un documentario che parte dalla ricostruzione di uno degli episodi più oscuri legati alla morte del cooperante: una riunione della Missione Onu del 10 luglio 2020, al termine della quale Paciolla aveva affermato di sentirsi in pericolo di vita. La video-inchiesta riprende anche le azioni sospette di Christian Thompson, responsabile della sicurezza della Missione Onu a San Vicente del Caguán, di cui L’Espresso ha scritto nei numeri precedenti.
Dopo aver comunicato il ritrovamento del corpo di Paciolla nella mattina del 15 luglio 2020, Thompson si è premurato di pulire con candeggina l’appartamento dove l’italiano è stato trovato morto, impedendo alla polizia colombiana di accedere all’abitazione. Il comportamento di Thompson rappresenta la più eclatante di una serie di ambiguità che hanno caratterizzato i comportamenti dell’Onu in relazione alla vicenda di Mario Paciolla. «Qualche giorno dopo la riunione del 10 luglio Mario si era affrettato a comprare un volo di ritorno per l’Italia. Purtroppo chi voleva farlo tacere ha agito prima che lui potesse partire» concludono i genitori.