Nel museo dedicato al nazionalista ucraino. Simbolo di indipendenza per alcuni, collaborazionista di Hitler per altri. E intorno alla sua figura una sintesi sembra impossibile

Trattiene il respiro, con la pancia in dentro e il petto nudo, lo stesso sorriso che avrebbe avuto in una giornata di primavera accanto ai figli, negli ultimi anni di esilio. Stepan Bandera, eroe di Ucraina, collaborazionista di Hitler, partigiano antisovietico o semplicemente criminale nazista, ci guarda da una fotografia in bianco e nero del 1920. È un ragazzino: posa in seconda fila, alla destra del padre Andriy, un prete greco-cattolico sposato secondo il rito bizantino e parroco proprio qui, nel villaggio di Staryi Uhryniv.

 

La foto è nell’anticamera, accanto al ližnyk, il tappeto tradizionale a parete, strisce nere e rosse come la terra e il sangue, i colori dell’esercito di Bandera. Siamo a un’ora di automobile dalla città di Ivano-Frankivsk, cuore dell’Ucraina occidentale, quella che oggi è più lontana dalla linea del fronte e dai bombardamenti russi. Bandera nacque proprio qui, nel 1909, in quello che all’epoca era Impero austroungarico, in una zona poi occupata dai polacchi e passata in seguito all’Unione sovietica. Referente politico dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini e del suo Esercito insurrezionale, l’Upa, già condannato all’ergastolo per terrorismo a Varsavia, cercò infine di approfittare dell’avanzata della Wehrmacht di Adolf Hitler per realizzare un sogno indipendentista. E fu allora che si assunse la responsabilità di esecuzioni sommarie e migliaia di morti polacchi, ebrei o russi. Fino alla sconfitta, all’esilio e all’ultimo sacrificio, nel 1959, a Monaco di Baviera: assassinato con il cianuro, probabilmente da un agente dal Kgb, il servizio segreto sovietico.

 

Misteri della Guerra fredda. Poi, dopo il crollo dell’Urss e la nascita dell’Ucraina indipendente, la casa natale di Bandera è divenuta museo. E oggi ad accoglierci è il suo direttore, Bogdan Ianevic, un signore minuto e dall’aspetto gentile. «Questa vetrata all’ingresso era all’ombra di una vite, mentre dal lato della camera di Stepan c’erano le arnie» indica con la mano. «Cantava nel coro e amava gli scacchi, finché si trasferì a studiare nella zona di Leopoli, dove cominciò la militanza politica, denunciando l’occupazione polacca». Si avvicina la guerra e bisogna scegliere tra Stalin e Hitler. «Bandera si spostò nella zona sotto occupazione tedesca», ricorda Ianevic, «dove creò la base di addestramento delle milizie che sarebbero dovute rientrare in Ucraina e proclamare la libertà». È il 1941: nove giorni dopo l’avvio dell’“Operazione Barbarossa”, con l’assalto nazista all’Unione Sovietica, a Leopoli i combattenti dell’Upa dichiarano la nascita di uno Stato indipendente. Tra le loro vittime ci sono polacchi, russi, comunisti ed ebrei. Anche i nazisti si rivelano però nemici dell’indipendenza ucraina. Lo stesso Bandera è deportato in un campo di concentramento tedesco e liberato solo quando la controffensiva dell’Armata rossa lo rende di nuovo utile contro i sovietici.

 

Oggi la casa di Staryi Uhryniv è anche un centro studi. Si scoprono legami con l’Italia, per il soggiorno a Roma di uno dei fratelli di Bandera, Oleksandr. «Studiò economia politica ed ebbe una relazione con una parente di Galeazzo Ciano, il genero di Benito Mussolini», ricostruisce Ianevic, preannunciando pubblicazioni di nuove testimonianze. Nell’Ucraina occidentale invece la guerriglia antisovietica continua per anni anche dopo la sconfitta del nazifascismo, con agguati e assassinii di funzionari.

 

Ne parliamo con Ivan Sandulovic, dell’associazione Dobri Liudi Bukovinu, responsabile di progetti di cooperazione e volontariato tra Bologna e Chernivtsi, la sua città natale, non polacca ma romena tra le due guerre, prima dell’avanzata dei sovietici. «Bandera è sempre stato un simbolo dell’opposizione ai “moscoviti”, lui li chiamava così, ma è anche vero che in questi anni ce lo hanno fatto riscoprire i russi» sottolinea l’attivista. «In tanti dicono: in fondo non era così male, voleva solo l’indipendenza dell’Ucraina». Punti di vista, spesso inconciliabili tra loro nei giorni dell’ottantesimo anniversario dell’ingresso dei sovietici a Berlino, il 9 maggio 1945. Di Bandera parla e fa parlare anzitutto Vladimir Putin. Nella prospettiva del presidente russo, il figlio del prete di Staryi Uhryniv è il simbolo dell’Ucraina da “denazificare”. E per i sostenitori dell’offensiva di Mosca i nemici sono “banderovtsy”, i “seguaci di Bandera”, criminali e razzisti.

 

La controversia non è affatto nuova. Viktor Yushchenko, il presidente eletto sull’onda della “rivoluzione arancione” è stato il primo a riconoscere Bandera come un eroe nazionale. E le gigantografie del capo nazionalista avevano fatto poi da sfondo alla rivolta del “Maidan”, che nel 2014 aveva costretto alla fuga un altro capo di Stato, il “filo-russo” Viktor Yanukovich: l’innesco della crisi diplomatica con Mosca e della guerra tuttora in corso.

 

La casa di Staryi Uhryniv custodisce la memoria del conflitto. Dopo la morte dell’ultimo parroco, era diventata sede del Kgb. Oggi in mostra c’è la testa di una statua di Bandera fatta a pezzi nel 1990, quando l’Urss era in agonia ma non ancora finita. E al sole di primavera brilla un nuovo monumento in bronzo, cappotto austero e mano sul cuore, come quello eretto a Ivano-Frankivsk. In città il sindaco Ruslan Martsinkiv ha annunciato un concorso di poesie e canzoni per un omaggio patriottico a Bandera: ai vincitori andranno trentamila grivne, circa 630 euro. Per la pace con la Russia, allora, bisognerà attendere. Anche in trincea si trattiene il respiro: «Vivi come Bandera».

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