Domenica 11 maggio, il leader socialista verso il quarto mandato. Decisivo il voto della diaspora. Avversari ma anche amici, come il sindaco di Tirana, annichiliti per via giudiziaria

Nessuno lo dice, tutti lo pensano. Anche questa volta Edi Rama vincerà le elezioni di domenica 11 maggio in Albania. Proprio lui, il grande leader socialista in sella dal 2012: punta al quarto mandato. L’ex cestista della Dinamo Basketball Club, ex docente di letteratura all’Accademia delle Arti di Tirana, stimato pubblicista e apprezzato pittore in patria e in Francia, noto per le sue stravaganze, per il suo modo di vestire estroso, per i progetti sociali ed economici rivoluzionari, per lo spirito di politico ribelle adattato al ruolo di statista.

 

Oggi, 61 anni a luglio, Edvin Kristaq Rama, figlio di uno scultore e di un medico, è premiato dalle intenzioni di voto che lo indicano ancora una volta come probabile futuro primo ministro. Oltre a una guida, il Paese delle Aquile deve rinnovare i 140 deputati del Parlamento. I sondaggi tratteggiano un quadro che resta immutato. Si vota, in fondo, per non cambiare. Ci sono in lizza 53 partiti raggruppati in tre coalizioni. La sinistra del Partito socialista d’Albania (Ps) si attesta al 52,9 per cento; l’alleanza di centrodestra tra il Partito Democratico (Pd) di Sali Berisha e il Partito delle Libertà (Pdl) dell’ex presidente e transfugo socialista Ilir Meta assieme ai socialdemocratici supera di poco il 47; la variante di un terzo polo centrista non arriverebbe al 45. Una maggioranza di 74 seggi consente di controllare l’Assemblea nazionale e di governare senza troppi scossoni.

 

C’è una novità che potrebbe spostare di qualche percentuale il risultato delle urne. Per la prima volta votano anche gli albanesi all’estero. Sono i protagonisti della grande diaspora. Una scena che qui in Italia ricordano in tanti: uomini e donne, moltissimi bambini, ammassati sul ponte della Vlora, una carretta del mare giunta a Bari da Durazzo l’8 agosto del 1991 con il suo carico di 20mila fuggiaschi da 40 anni di dittatura. Sembravano fantasmi, aggrappati a una nave corrosa dalla ruggine. Arrivarono in silenzio, non sapevano cosa avrebbero trovato, come sarebbero stati accolti. Venivano dal nulla, dal vuoto di un regime crollato di colpo. Ma erano decisi a uscire da quel Paese che Enver Hoxha, ultimo maoista dell’altro secolo, aveva sigillato da ogni contatto esterno rendendolo nei fatti una prigione a cielo aperto.

 

Alle ultime elezioni del 2012 aveva votato metà degli aventi diritto al voto. Questa volta i 2,6 milioni di albanesi all’estero sui 4,6 registrati in patria faranno sentire il peso del loro consenso. Oggi vivono soprattutto in Germania e in Italia, dove si sono perfettamente integrati. Hanno fornito mano d’opera a basso costo, si sono resi disponibili a svolgere lavori che chi li ospitava rifiutava. Hanno risparmiato. Hanno investito e contribuito allo sviluppo straordinario di un’Albania che si riconosce a stento. Rappresentano una variabile importante.

 

Lo sanno bene i protagonisti di una campagna che è stata costellata da veleni, vendette e uso politico della giustizia. Se Rama ha puntato subito sulla diaspora, sulla modernizzazione del Paese, sui giovani, arrivando a mettere al bando TikTok dopo una lite che aveva provocato la morte di un ragazzino, Sali Berisha e Ilir Meta hanno cercato una sponda nei partiti di centrodestra in Italia denunciando il pesante clima nei loro confronti a casa. Non era facile trovarsi estromessi di colpo. Per oltre tre decenni sono stati protagonisti della scena politica obbligando il loro avversario all’opposizione. Ma sono stati anche artefici di una serie di vicende quantomeno controverse che li hanno indeboliti e poi sconfitti. Nel dicembre del 2023, lo storico leader conservatore del Partito Democratico, già sanzionato dal Dipartimento di Stato Usa nel 2021 perché coinvolto in uno scandalo di corruzione, è stato costretto agli arresti domiciliari dove è rimasto per quasi un anno. La misura è stata revocata nel novembre 2024. Sali Berisha ne ha approfittato per accusare Rama di «essere autore di un colpo di Stato di cui è vittima l’opposizione albanese». Ha esortato il leader socialista a fare un passo indietro e a lasciare spazio a un governo di transizione. Appello caduto nel vuoto.

 

Nel novembre del 2024 è la volta di Ilir Meta a finire dietro le sbarre dove ancora si trova. Già presidente, premier, speaker del Parlamento e più volte ministro, l’ex socialista passato all’opposizione con il suo Partito della Libertà viene arrestato con un blitz delle forze speciali dello Spak, la Procura anticorruzione istituita nel 2016 con ruoli simili alla nostra Direzione nazionale antimafia. L’arresto è clamoroso, a uso delle telecamere tv nel frattempo avvertite di quanto sarebbe avvenuto. Il suv di Meta viene bloccato e sui social si vede come una delle tre persone più importanti nella storia dell’Albania degli ultimi 35 anni venga trascinata a terra e obbligata a mettersi in ginocchio prima di essere infilata su un’altra auto che parte a tutta velocità. Tuttavia, l’ex presidente e premier è anche il leader che ha cambiato schieramento per quattro volte. Una scelta che ha trasformato presto i suoi amici in nemici giurati.

 

Ilir Meta è accusato di riciclaggio di denaro, corruzione passiva e falsa dichiarazione di beni. Nega ogni addebito e i suoi figli si battono per ottenere quantomeno la misura degli arresti domiciliari. Nei fatti sono orfani: la scure dalla giustizia si è abbattuta anche sulla loro madre, Monika Kryemadhi, accusata di concorso negli stessi reati del marito. Oggi la donna è tornata a casa ma ha l’obbligo della firma. Entrambi i coniugi sono ricorsi alla Corte di Giustizia europea denunciando una vera persecuzione. Meta, in particolare, ha descritto l’episodio del suo clamoroso arresto come l’inizio dell’ennesima lotta contro il “narco-Stato” instaurato nel Paese.

 

Per Edi Rama non è stato difficile conquistare la maggioranza dei consensi. Libero dagli avversari più influenti, il tre volte premier ha sfruttato la sua lunga esperienza di uomo d’arte e di politico. Oltre a essere stato più volte ministro, ha modellato per tre volte come sindaco lo sviluppo di Tirana. La sua opera più celebre è stata la rimozione dei chioschi costruiti illegalmente dopo la caduta del comunismo nel parco centrale della città. Ha risanato il fiume Lana, fatto demolire alcune case costruite sugli argini, ha rivoluzionato l’assetto urbanistico della capitale, tra verde e isole green e rifacimento di tutte le strade, tinteggiando con colori sgargianti gran parte dei vecchi palazzi che sono diventati un’attrattiva turistica. Certo, nel clima di vendette e ritorsioni, anche lui ha dovuto evitare le trappole disseminate sul suo cammino: il sindaco Erion Veliaj, suo amico e figura chiave del Ps, è stato arrestato nelle scorse settimane. Sempre per corruzione. Edi Rama non ha urlato al complotto, non ha parlato di persecuzione. Ha continuato a governare e a viaggiare all’estero per incontrare i protagonisti della diaspora, quelli chiamati per la prima volta alle urne. Ha firmato l’accordo con la premier Giorgia Meloni per la creazione di due centri di detenzione degli immigrati, quelli di Shengjin e di Gjader. Un’altra tappa, controversa e contestata, verso il suo obiettivo finale: la promozione dell’Albania in Europa e il suo ingresso ufficiale tra i 27 nel 2030.

 

Da dietro le sbarre, Ilir Meta ha raccolto la solidarietà del ministro degli Esteri Antonio Tajani e dei vertici del Ppe, ma la sua vicenda non sembra per il momento offrire qualche alternativa. Meloni ha avuto difficoltà a tessere rapporti con Rama che è socialista ed è accusato dal centrodestra albanese di essere il regista di questo supposto golpe giudiziario. Prevale il realismo politico. Il premier e probabile vincitore delle prossime elezioni non ha avuto remore a sfidare la potente mafia albanese, l’unica ad avere accesso al tavolo dei grandi del narcotraffico. Assieme alla ’ndrangheta è la sola a mantenere rapporti diretti con i cartelli colombiani e i narcos messicani. Ma Rama, per conquistarsi un posto in Europa, nel giugno del 2018 ha rotto un tabù che resisteva da sempre. Ha ordinato la distruzione delle piantagioni che avevano trasformato la cittadina di Lazarat nella capitale mondiale della marijuana. In questo piccolo borgo arroccato sulle montagne si producevano 900 tonnellate di cannabis l’anno. Valevano 4,5 miliardi di euro, quasi la metà del Pil del Paese. Gli affari adesso si fanno all’estero.

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il rebus della Chiesa - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso