In copertina questa settimana c’è un busto con il volto inconfondibile di Donald Trump. Una scultura celebrativa, in posa imperiosa, ma ormai spezzata, corrosa da crepe che si allargano come cicatrici profonde. È il simbolo di un potere che, a soli cinque mesi dall’insediamento alla Casa Bianca, mostra segni di cedimento evidenti.
Il secondo mandato del tycoon si è aperto in modo ben diverso da come lui lo aveva sognato. Doveva essere il ritorno del condottiero, il trionfo dell’“America First” e della vendetta contro l’“élite corrotta” che – a suo dire – aveva sabotato la sua prima presidenza. Ma l’immagine che oggi restituisce il Paese è quella di una leadership isolata, sotto assedio, indebolita da errori di calcolo e da un crescente malcontento, anche nei ranghi che un tempo gli erano fedeli.
I disordini di Los Angeles, con migliaia di manifestanti nelle strade e scontri violenti in più quartieri, hanno costretto la Casa Bianca a una decisione senza precedenti dal 1965: l’attivazione della Guardia nazionale senza alcuna richiesta da parte delle autorità locali. È un atto grave, un segnale d’allarme. Perché Trump, ancora una volta, sceglie di calcare la mano, di invocare emergenze esagerate o addirittura inesistenti pur di accrescere il proprio potere. La sua è una presidenza che si nutre di conflitti, che ha bisogno di un nemico da indicare ogni giorno. Così ha fatto anche con la questione dei migranti, deportati in Paesi terzi senza alcun diritto di difesa, o con i dazi unilaterali imposti a nazioni “colpevoli” di non contrastare abbastanza il traffico di fentanyl. Ma ora, qualcosa si è incrinato anche all’interno del suo fronte. L’abbandono di Elon Musk, che fino a pochi mesi fa appariva come un alleato imprescindibile nella crociata trumpiana contro il “deep state”, è un colpo durissimo. Musk non solo ha voltato le spalle, ma ha lanciato un’opa politica sul centro americano: The America Party, la nuova formazione che si propone di intercettare la delusione degli elettori indipendenti e degli imprenditori moderati. Non è solo uno scisma: è un’ipoteca sul futuro della destra americana.
E come se non bastasse, crescono anche le critiche all’interno del Partito Repubblicano. Il deputato texano Chip Roy, uno dei più ferrei sostenitori del rigore fiscale, ha pubblicamente denunciato la follia delle attuali politiche di spesa. In dieci anni, il bilancio federale è raddoppiato, da 3.600 a 7.200 miliardi di dollari. Roy ha rilanciato su X dei grafici impressionanti: oggi, il solo pagamento degli interessi sul debito costa più di quanto spenda il Pentagono per la difesa. È la seconda voce di spesa dello Stato, dopo la Social Security, e supera anche il budget di Medicare. Una follia. E un paradosso per un presidente che si era presentato come il paladino del rigore e del business oculato.
Tutto questo mentre il caos regna su altri fronti: la guerra commerciale con il Messico che rischia di far saltare accordi strategici, la crisi diplomatica con l’Europa riaccesa da dichiarazioni incendiarie sulla Nato, e un Congresso che, pur a maggioranza repubblicana, è sempre più insofferente rispetto all’arroganza decisionale della Casa Bianca. Perfino alcuni senatori storicamente vicini a Trump hanno chiesto di rivedere i poteri esecutivi concessi in nome dell’“emergenza continua”.
Trump è ancora lì, arroccato nel suo fortino dorato, a twittare e attaccare. Ma intorno a lui il terreno si sgretola. La statua in copertina vuole essere la fotografia di una crisi. Non è detto che crollerà. Ma se continua così, sarà difficile salvarla dalle macerie.