Tanto tuonò che piovve. Ed Elon Musk non è più “il Doge”. Nelle scorse settimane qualcuno era stato (facile) profeta: di qui a poco scoppia la coppia di fatto formata dal presidente-tycoon della old economy con la passione per le crypto insieme al miliardario-neopolitico high tech. Ed è puntualmente avvenuto.
L’avventura del billionaire ketaminico di origini sudafricane all’interno della seconda amministrazione Trump è finita formalmente «per decorrenza dei termini», nel senso che l’incarico risultava a tempo (130 giorni). Ma è plausibile pensare che le ragioni siano ben altre (e non si tratta di “benaltrismo”). Alcune appaiono palesi – l’incontestabilità dei numeri –, mentre altre emergono dai rumors. Per quanto concerne le prime, Musk aveva assunto la direzione del “Dipartimento per l’efficienza governativa”, con un ruolo (formalmente piuttosto eccepibile) di consigliere speciale del presidente, lanciandosi nell’inusitato – e allucinante – annuncio di risparmi per il bilancio federale di duemila miliardi di dollari. E, invece, quelli effettivi – o, quanto meno, ufficialmente dichiarati – ammontano a 175 miliardi, con il contestuale devastante licenziamento di 260mila (ex) dipendenti, pari al 12 per cento circa del personale federale.
E, tra una intemerata, un endorsement elettorale all’Afd, una motosega e un braccio alzato da saluto nazifascista, in Europa le vendite di Tesla si sono ridotte alla metà, mentre il test del mega-razzo Starship si è tradotto in un buco nell’acqua (o, per essere più precisi, nell’atmosfera, dove è esploso in modo fallimentare).
Per quanto riguarda la seconda categoria di ragioni che lo hanno spinto a gettare la spugna ci devono essere stati i litigi – accreditati dal rivale Steve Bannon – con il segretario al Tesoro Scott Bessent (con cui sarebbe venuto alle mani), e con il guru economico del presidente Peter Navarro, etichettato alla stregua di «un idiota». E in questi casi sarebbero pure emerse le divergenze di fondo rispetto alla Trumponomics, fra la richiesta di Big Tech di continuare a puntare sull’immigrazione qualificata e il disaccordo sui dazi. A cui si è aggiunta, verosimilmente, la sensazione di essere considerato dallo staff trumpista non molto di più di un bancomat per le campagne elettorali (nelle quali ha versato 300 milioni di dollari). E, comunque, comprarsi la carica pubblica non basta nel nuovo (dis)ordine trumpista che, anche sotto questo profilo, assomiglia parecchio al Basso impero romano celebrato dai postmoderni fake architettonici dell’amata Las Vegas.
A far saltare definitivamente (o forse no, siamo in presenza di personaggi che hanno l’imprevedibilità nel dna) il banco è stato, però, quanto risultava percepibile sin dall’inizio di queste “relazioni pericolose”. Due galli – dalle personalità oggettivamente ipertrofiche – nello stesso pollaio erano troppi. Il troppo stroppia, si sa, e alla fine non poteva che rimanerne uno solo.
Del resto, la strategia di Trump è il “divide et impera”, consistente nella fattispecie nel mettere l’anarcolibertarismo della tecnodestra in competizione con il populismo Maga. E, così, Musk va rubricato come il primo esempio di esponente del neoliberismo digitale sbarcato nella stanza dei bottoni del potere politico, ma finito male. Almeno per il momento…