Sudafrica, Cambogia, Ucraina, Uganda: ovunque nel mondo ci sono pazienti che in questi primi sei mesi del 2025 hanno interrotto la terapia per l’Hiv. I medicinali scarseggiano, così come i test diagnostici. Il personale delle organizzazioni mediche e umanitarie che si occupano di Aids e altre malattie infettive è stato decimato dai licenziamenti; tutti sono in cerca di finanziamenti alternativi. È l’impatto globale delle decisioni in materia di salute globale dell’amministrazione Trump II: la mancata riautorizzazione del piano Pepfar – il programma ventennale di aiuti per il contrasto alla diffusione di Hiv e Aids – e soprattutto i tagli alla Usaid, l’agenzia statunitense che sovrintendeva ai programmi di cooperazione internazionale. In connessione ai tagli «un gruppo di esperti internazionali su The Lancet ha stimato che solo nel continente africano si potrebbero verificare un milione di nuove infezioni da Hiv tra i bambini e la morte per cause collegate all’Aids di quasi mezzo milione di minori entro il 2030», ha evidenziato a L’Espresso Stefania Burbo, focal point del Network italiano salute globale. Lo Unaids, il programma delle Nazioni Unite contro l’Hiv/Aids, sta tenendo traccia sul proprio sito della crisi causata dai tagli agli aiuti americani. I
n una ricerca pubblicata a maggio e condotta su 56 Paesi nel mondo, è risultato che il 14 per cento di loro ha scorte di alcuni farmaci antiretrovirali per al massimo sei mesi, il 21 per cento potrebbe presto rimanere senza test per l’Hiv e il 46 per cento ha manifestato difficoltà nella catena di distribuzione. La crisi interessa non solo Africa, Asia e Sud America ma anche l’Est Europa, innanzitutto l’Ucraina. In un aggiornamento del 22 aprile, tra gli altri effetti dei tagli, si segnala che l’interruzione delle forniture che arrivavano grazie agli Stati Uniti sta mettendo a rischio la campagna nazionale di prevenzione con la profilassi pre-esposizione, la PrEP: in base al consumo medio mensile attuale, le scorte di farmaci necessari potrebbero terminare a metà agosto, lasciando la popolazione già in guerra priva di un importante strumento di prevenzione.
Mentre Elon Musk nei giorni scorsi si è ritirato dal suo ruolo nel Department of Government Efficiency (Doge), nei luoghi dove arrivavano i fondi americani per la salute globale le persone invece di ricevere le cure necessarie «restano a casa, non sanno dove andranno a prendere le loro medicine e non hanno certezze sul proprio futuro». A parlare è Jovia Mirembe, attivista del Global Fund Advocates Network. Jovia è un’avvocata ugandese, esperta di diritti umani e soprattutto di discriminazioni nei confronti di chi vive con l’Hiv e di altre categorie. Lei stessa ha ricevuto la diagnosi nel 1997, affrontando lo stigma sociale legato alla sua condizione medica e al fatto di essere diventata madre a 14 anni.
Il taglio ai fondi destinati alla salute globale ha travolto anche il suo lavoro e la sua famiglia. Alla Universal Coalition of Affirming Africans Uganda si sono ritrovati senza soldi per pagarla e quando con suo figlio è andata in ospedale per fargli fare l’ultimo test diagnostico necessario per avere la conferma della sua negatività al virus dell’Hiv non ha trovato nessuno, fatta eccezione per un volontario. «Quando gli ho detto che mio figlio doveva fare il Pcr (il test di reazione a catena della polimerasi, ndr), mi ha spiegato che in quel momento non stavano facendo nessun test: “Vieni, ti diamo le medicine necessarie per un mese e poi vai via”. Gli ho chiesto che cosa avrei dovuto fare, allora, e la sua risposta è stata: “Continua a dargli medicine finché la situazione non si stabilizza”». Pur di non far prendere medicinali potenzialmente inutili al ragazzo, Jovia ha effettuato altrove il test a pagamento scoprendo che poteva, appunto, smettere di fargli assumere i farmaci.
Le difficoltà non sono solamente nel far analizzare il sangue dei pazienti. Choub Sok Chamreun è il direttore esecutivo di Khana, una organizzazione non governativa che opera in Cambogia e supporta i pazienti con Hiv, tubercolosi, epatite e che si occupa di salute riproduttiva, materna e infantile. L’organizzazione cambogiana, che alla fine del 2024 aveva prestato servizi a oltre 80mila persone, si è ritrovata come tante altre dall’oggi al domani senza i fondi Usaid, nel suo caso destinati alla cura e alla prevenzione della tubercolosi, e ha dovuto licenziare parte del personale. Molti dei pazienti – che talvolta hanno sia l’Hiv sia la tubercolosi – hanno perso il loro punto di riferimento, il community workerche si occupava di loro facendo visita a luoghi lontani dalle strutture mediche. Chamreun spiega che il progetto finanziato dalla Usaid consentiva di portare «i macchinari per i raggi X al torace fino ai villaggi nei quali si sospettava che gli abitanti potessero avere la tubercolosi». Se la diagnosi veniva confermata «ricevevano sul posto la registrazione per ottenere i farmaci». Anche le informazioni ora arrivano in maniera limitata, non potendo più contare su una rete di persone che lavoravano sul campo.
Nella ong cambogiana si stanno dando da fare per cercare nuovi finanziamenti, ma al momento non hanno ancora certezze su come rimpiazzare i soldi che arrivavano dagli Stati Uniti. Che si tratti di fondi per Hiv o la tubercolosi il discorso non cambia: il disimpegno netto e improvviso del principale finanziatore della salute globale ha evidenziato la dipendenza di molti Paesi dagli aiuti americani. «Possiamo ancora combattere e vincere la lotta contro l’Hiv solo se collaboriamo con i nostri governi e se i nostri governi si rimboccano le maniche e non dipendono da finanziamenti esteri per affrontare i propri problemi», sostiene Sibongile Tshabalala, presidente nazionale della organizzazione sudafricana Tac, Treatment Action Campaign, una della principali voci della lotta contro l’Aids in un Paese nel quale il 13,1 per cento delle morti è ancora causato da questa malattia. Per fare un confronto, in Italia lo 0,2 per cento della popolazione tra i 15 e i 49 anni vive con Hiv o Aids, in Uganda è il 5,12 per cento, in Sudafrica il 17,1 per cento. L’impatto dell’interruzione improvvisa degli aiuti americani è descritto dalla presidente di Tac non solo in termini di perdita di posti di lavoro e interruzione delle terapie, ma anche per la raccolta dati e per la ricerca.
Della necessità di rivolgersi ai governi locali ne parla anche Jovia Mirembe, evidenziando però i problemi legati al governo ugandese, nel suo caso specifico. Nel 2023 l’Uganda è balzato nelle cronache internazionali per l’approvazione di una legge che punisce l’omosessualità, decisione che ha un impatto non solo sui diritti civili ma anche sulla salute sessuale della popolazione. E questo in un Paese che, stando alle parole di Jovia, criminalizza chi vive con l’Hiv. «Ci si aspetta che proteggiamo ogni altra persona negativa dal contrarre l’Hiv, eppure l’onere di garantire che la propria negatività rimanga tale dovrebbe essere una responsabilità personale», aggiunge. Al momento lei e gli altri attivisti stanno facendo pressione al governo ugandese per far aumentare il budget destinato alla sanità. «Non abbiamo ancora ricevuto promesse concrete ma insistiamo. Roma non è stata costruita in un giorno; speriamo di riuscirci».