Il vertice al bar con Macron, Starmer e Merz, alla luce dell’abbandono anticipato del G7 del presidente americano, costituisce la premessa per una posizione comune

Il trumpismo difficile di Meloni

Gli europei almeno sono riusciti a coordinarsi, e questa volta il governo Meloni si è subito mosso insieme con i partner dell’Unione e la Gran Bretagna evitando smagliature. La guerra Israele-Iran spinge l’Europa a serrare le fila davanti al pericolo che il conflitto possa allargarsi al resto del Medio Oriente come il capo di Stato maggiore della Difesa Luciano Antonio Portolano, senza mezze parole e addentrandosi nelle valutazioni di politica estera anche al di là della prudenza che di solito viene seguita dai vertici militari, ha messo in chiaro. Lo ha fatto quando in Canada si riuniva il G7 alle prese con le intenzioni indecifrabili di Trump, oscillante fra l’incoraggiamento a Netanyahu e l’anelito a una iniziativa diplomatica in compagnia dello stesso Putin che gli europei invece identificano, a ragione, come il vero ostacolo alla pace in Ucraina, trattandosi dell’artefice di una guerra ai confini dell’Unione. Condotta anche con l’ausilio dei missili balistici forniti da Teheran. Il plateale abbandono del G7 da parte del tycoon ha fatto il resto, poco dopo un colloquio con Giorgia Meloni, che vede il proprio “trumpismo” sempre più difficile.

 

Il “vertice al bar” di Kananaskis, che ha preceduto di poche ore l’inizio vero e proprio del G7, con Meloni accanto a Macron, Starmer e Merz – premessa di una posizione comune che possa evitare di rendere la de-escalation una parola vuota e retorica – è apparso il primo tentativo di far percepire la presenza dell’Europa. Due giorni prima, sabato 14 giugno, a Montecitorio, una stretta di mano fra Tajani e Schlein, a conclusione della riunione delle commissioni Esteri del Parlamento per l’informativa del governo, ha sancito la volontà di frenare, nel possibile, le polemiche interne che erano già divampate: le opposizioni accusavano il ministro degli Esteri di aver ignorato la sera del 12 giugno le avvisaglie di quanto stava per avvenire a breve fra Israele e Iran; il titolare della Farnesina rispondeva rimproverando coloro che lo criticavano di non essersi fatti vivi con la Farnesina nelle ore notturne dell’offensiva militare israeliana preferendo «alzarsi tardi» la mattina.

 

In ore così drammatiche, il rischio di una lite di cortile sembra essersi allontanato. Restano le scelte per il futuro. «Cessate il fuoco e tornare al negoziato – ci dice Giuseppe Provenzano, responsabile esteri del Pd – è la posizione che l’Italia deve portare avanti, per la sua tradizione diplomatica e per il sentimento profondo del suo popolo. Chiediamo a Giorgia Meloni di farlo con coraggio e senza ambiguità, perché invece l’inazione, le inaccettabili timidezze e i silenzi su Gaza hanno fatto deragliare il nostro Paese, indebolendo il ruolo che possiamo svolgere nel Mediterraneo». È ancora l’eco della manifestazione delle opposizioni a piazza San Giovanni. Nel «campo progressista» (come lo definisce Schlein) che era a Roma per Gaza ci sono anche la posizioni più radicali che accomunano M5s e Avs con parole durissime nei confronti di Israele, fino a definire «criminale» la politica di Netanyahu come ha fatto Giuseppe Conte, aggiungendo l’accusa al governo Meloni di «non aver detto se condanna o no l’attacco all’Iran». Parlando con L’Espresso, Nicola Fratoianni – dopo aver sostenuto che «di fronte all’aggressione israeliana a Teheran la comunità internazionale balbetta e usa formule di circostanza» – allarga la polemica alla questione del riarmo, senza distinzioni fra le due sponde dell’Atlantico: «L’Europa e gli Usa pensano di poter affrontare gli squilibri economici del mondo attraverso le armi, con il rischio di un conflitto su larga scala, nel quale gli apparati militari dei Paesi europei potrebbero essere direttamente coinvolti». Per l’esponente di Avs si tratta di «una spirale fra investimenti in armi e guerra che bisogna interrompere con la massima urgenza».

 

Riemerge più di una “scuola di pensiero”. C’è quella che abbiamo appena visto. È condivisa dai Cinque Stelle: il riarmo funzionale solo ai bellicismi. E un no pronunciato anche da Matteo Salvini: «Il riarmo non c’entra niente con la situazione in Medio Oriente, è solo una scusa per indebitarci e per comprare armi o missili in Francia e in Germania». Parole liquidate da Carlo Calenda come «chiacchiere da bar», ma che costituiscono un problema all’interno del governo, rispetto alla linea Tajani-Crosetto che dovrebbe condurre in tutt’altra direzione, come ci conferma l’esponente politico più vicino al ministro degli Esteri. «Parliamoci chiaro – spiega Raffaele Nevi, portavoce nazionale di Forza Italia – se vogliamo essere un Continente che si candida a svolgere un ruolo significativo nella politica estera senza dipendere esclusivamente dall’aiuto degli Stati Uniti, dobbiamo investire nella difesa e nella sicurezza. Gli americani ci hanno comunicato che non possono sobbarcarsi le necessità militari europee oltre un certo limite. La difesa europea dovrà essere più efficace, ma questo richiede una maggiore integrazione politica fra i Paesi dell’Unione per spendere meglio e, se possibile, per spendere di più».

 

La posizione del Pd. «Abbiamo contestato – riassume Provenzano – le proposte di von der Leyen perché non andavano verso una vera difesa europea, ma spingevano per un riarmo nazionale, peraltro solo dei Paesi che possono permetterselo, come la Germania. Il vertice Nato segue lo stesso schema. Di fronte alle sfide e alle minacce del mondo serve una vera difesa europea, anche perché solo gli investimenti comuni, finanziati da risorse comuni, anche a debito, possono garantire che la sicurezza sia perseguita non a scapito della altre priorità sociali e di investimento. Su questo il governo è profondamente diviso, ma né la parte che vuole il riarmo nazionale né Salvini che è contro la difesa europea, rappresentano la risposta ai problemi che abbiamo di fronte».

 

Aggiunge il capogruppo Pd della commissione Difesa di Montecitorio, Stefano Graziano: «Difesa europea significa debito europeo, altrimenti il rischio è di armare non solo i singoli Stati ma quelli che possono permettersi in qualche modo di indebitarsi da soli». Anche l’azzurro Nevi, evoca «gli eurobond o altri strumenti che consentano all’Europa di aiutare gli Stati nazionali nella prospettiva di un indebitamento comune». Meloni ha cominciato a verificarne la fattibilità, anche nel recente incontro romano con il socialista portoghese Antònio Costa, presidente del Consiglio europeo, dopo che il governo italiano non è (ancora?) ricorso ai prestiti europei Safe, 150 miliardi legati al Piano von der Leyen.

 

Quanto all’aumento della spesa per la Difesa, per arrivare al 5 per cento chiesto dalla Nato la strada è ancora lunga, nonostante il vertice convocato all’Aja (24-26 giugno). Per l’Italia vorrebbe dire arrivare a 110 miliardi, in 7 anni come prospettato oppure allungando a 10 come preferirebbe il governo. In ogni caso, una spesa imponente che fa scattare l’allarme del ministro Giorgetti, e che Meloni vorrebbe eventualmente utilizzare anche per investimenti non strettamente militari mettendoci dentro – guarda caso – proprio il Ponte sullo Stretto. Quello che resta irrinunciabile per il “pacifista” Salvini, sempre più spina nel fianco di Tajani e di Crosetto.

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