Conquistata Gaza, Israele e Usa puntano a un regime sotto controllo in Iran. Con il beneplacito delle monarchie arabe e il via libera della Russia. In cambio dell'Ucraina. All'Europa, nuda e disarmata, non resta che stare a guardare. E magari cominciare ad armarsi

La nuova spartizione del Medio Oriente

Ricca. Desiderabile. Disarmata. Questa è l'Europa che deve affrontare il mondo infuocato dalle guerre che la circondano. L'ultima invasione di Israele, quella dell'Iran, la vede semplice spettatrice in un vicinato che riscrive ruoli e confini. Non ha potuto salvare Gaza dalla hybris israeliana e non sarà sua la voce che suggerirà il prossimo regime iraniano. «L’Europa non ha proiezione esterna», dice il politologo Olivier Roy: «E nemmeno una politica difensiva, che ne sarebbe il presupposto». L'ultimo G7 canadese si è risolto in un nulla di fatto, i nani europei che cercavano di mettersi d'accordo per blandire il gigante americano. Lui che si è alzato e se ne è andato. Infastidito e occupato. Di richiamare Israele alla ragione non ne ha voluto sapere. Forse ha già fatto l'accordo con Vladimir Putin: l'Iran per l'Ucraina.

 

Mentre l'Europa era impegnata a discutere su se e come costruire un esercito integrato e un comando unico europeo, a mediare con opinioni pubbliche, soprattutto del Sud, che per decenni ha convinto dell'inutilità delle armi e dell'autosufficienza della diplomazia, Israele ha colto l'attimo. Trasformato in missili piani che da mesi partivano difensivi ma finivano inequivocabilmente offensivi. A Gaza innanzitutto. Ora in Iran. «Se Israele davvero pensasse che ci fosse un rischio imminente di costruzione della bomba nucleare colpirebbe di più le strutture nucleari iraniane, tentando con ogni mezzo di fare più danni possibili», dice l'americana Kelsey Davenport, direttrice per le politiche di non proliferazione presso l'Associazione per il controllo delle armi, scettica sulle ragioni nucleari dell'attacco preventivo di Israele: «Nel rapporto dell'Aiea non c'era nulla che non si sapesse già». L'Iran ha compiuto attività illecite senza dichiararle dal 2003 «ma è un’illazione che avesse deciso di fabbricare adesso un’arma nucleare», aggiunge: «Forse ci sarebbe voluto ancora un anno, nulla di definitivo, c’era lo spazio per portare avanti i negoziati». D’altronde sono anni che «mancano pochi mesi».

 

Ma le trattative stavano prendendo una piega positiva che Israele voleva scongiurare: il nemico non sarebbe stato definitivamente piegato. Dopo la decapitazione di Hamas e di Hezbollah (un bombardamento e centinaia di vittime collaterali alla volta) e la distruzione della Palestina, Israele pare essersi abituata al successo brutale. Bombardando la televisione di Stato Benjamin Netanyahu ha chiarito di non volere soltanto disinnescare la minaccia nucleare: pretende il cambio di regime. A qualsiasi prezzo. «Ma un cambio di regime non è mai garanzia di non proliferazione», aggiunge Davenport. Lo potrebbe essere però di sudditanza verso la potenza regionale. Come insegna Mosca.

 

Intanto sugli schermi della televisione passano le immagini di una Teheran che brucia. I volti degli odiati pasdaran che non faranno più male alle centinaia di ragazze seviziate e poi uccise per un velo. Il regime iraniano è odiato da tempo. Dentro e fuori. Non ha più alleati. Nemmeno in Europa, la stessa che nel 2015, con Federica Mogherini, allora rappresentante degli Esteri di Bruxelles, aveva collaborato insieme agli Usa di Barack Obama alla sigla di un accordo di non proliferazione, poi stracciato dalla prima presidenza di Donald Trump. Perfino Putin, storico alleato, avido consumatore dei suoi droni di morte in Ucraina, ha tradito l'Iran, abbandonandolo al suo destino, pedina spendibile sullo scacchiere militare odierno.

La guerra in Iran offusca la distruzione della Gaza palestinese 

La guerra monta. L’Onu cancella la conferenza sui due Stati – Israele e Palestina – che la Francia di Emmanuel Macron e l'Arabia Saudita, da mesi colpevolmente alla finestra come tutti gli Stati arabi, avrebbero dovuto presiedere. Il primo ministro britannico Keir Starmer non parla più di sanzioni né di «macchia nera» per l'umanità guardando alla Palestina: annuncia invece di essere pronto a difendere Israele. E Gaza, quel puntino di sabbia e macerie vive che invano vorrebbe affacciarsi sul Mediterraneo, è inghiottita. I suoi abitanti continuano ad essere affamati, dilaniati dai cani, uccisi dall'esercito con la stella di David ma le sue grida sono ora soffocate dagli applausi per le bombe sganciate sui turbanti del Male. «Non sappiamo quale sia l’obiettivo finale degli israeliani in Iran», dice Richard Nephew, direttore del Centro delle politiche energetiche della Columbia University. Certo la sicurezza. Ovvio il cambio di regime. Cos’altro? Da parte di uno Stato che si è scoperto più forte di quanto il mondo avesse creduto: capace di portare la guerra senza l’assistenza attiva degli Usa. Almeno fino ad oggi, fino a che Trump non decida di sposare la sua guerra e, dopo Iraq e Afghanistan, avventurarsi anche in Iran, convinto come è che tutto quello che tocca avrà un destino brillante.

 

Dall'altra parte del globo Xi Jinping osserva. E attende il momento perfetto anche lui per attaccare. E, chissà, dimostrare definitivamente, sulla pelle di Taiwan, che gli Usa, pur potenti, pericolosissimi, non sono più gli araldi di quel che resta del mondo liberale. Intanto le prodezze belliche a briglia sciolta di Israele rendono più forte il dittatore turco, membro della Nato, e il dittatore russo, la cui assenza al G7 (ne fu espulso dopo l'invasione della Crimea nel 2014) è stata addirittura criticata da Trump. L'Europa li ha tutti ai suoi confini i dittatori bramosi, accovacciati sotto gli ulivi del Mediterraneo, come leoni pronti al balzo, o annidati nelle steppe. Ed è costretta a conviverci perché non ha nessuno strumento di dissuasione. «Israele ha il diritto di difendersi», ribadisce il cancelliere tedesco Friedrich Merz. «Il cessate il fuoco per Gaza», si affanna a ricordare la premier italiana Giorgia Meloni, che non vuole urtare gli Usa ma non può non rendersi conto che a loro degli europei ormai importa poco, cappellino rosso in testa o meno.

 

Gli Usa quel patto storico siglato sulle ceneri di un’Europa in fumo dopo secoli di guerre lo hanno definitivamente infranto, altro che commemorazioni in pompa magna sulle spiagge della Normandia: avevano giurato di proteggerla l'Europa, di difenderla da se stessa e dalla Russia. Invece le hanno agevolato la guerra in casa. Ora, bella e nuda, può solo sperare che i caccia che in questi giorni sorvolano Roma all'alba non la sfiorino mai.

 

Ma col passare dei mesi, se non imparerà a vestirsi, rischia di diventare sempre meno fortezza e sempre più preda, in un gioco di conquiste che dilaga. Proprio l'aumento della spesa militare sarà l'argomento principale del prossimo vertice Nato del 24-25 giugno all'Aja. L'obiettivo del 5 per cento del Pil – 3,5 in armamenti e 1,5 in infrastrutture di sostegno – dovrebbe essere condiviso e accettato da tutti davanti all'ineluttabilità degli eventi. Il punto chiave resta la tempistica. E non è un dettaglio.

O l'Europa ne sostiene la difesa o l'Ucraina è russa

Putin in Ucraina è arrivato sulle sponde del Dnipro, il quarto fiume del Vecchio Continente. Kiev, prima risparmiata, ormai è violentemente bombardata, quotidianamente, senza che Trump batta ciglio. Da marzo gli Usa non forniscono più aiuti all'Ucraina e hanno appena annunciato di spostare quelli previsti per l’estate in Israele. Così, per la prima volta dal giugno 2022, l’Europa ha superato gli Usa in termini di aiuti militari complessivi, per un totale di 72 miliardi di euro rispetto ai 65 miliardi di euro di Washington. I contributi non sono stati ugualmente ripartiti: i Paesi nordici e il Regno Unito hanno versato somme ingenti, mentre altri, come la Germania, hanno mantenuto livelli più moderati. L'Italia è in fondo alla classifica. Secondo il “Kiel Institute for the World Economy”, i governi europei spendono solo lo 0,1 per cento del loro Pil annuale per gli aiuti bilaterali all'Ucraina. Per sostituire i flussi di aiuti statunitensi e mantenere il sostegno totale allo stesso livello dovrebbero raddoppiare il budget, portandolo allo 0,21 per cento del Pil, ovvero a meno della metà di quanto stanno già facendo la Danimarca, i Paesi baltici, Polonia e Paesi Bassi. In breve: l’Europa nel suo complesso dovrebbe aumentare il flusso annuale di aiuti dagli attuali 44 miliardi di euro all'anno a 82 miliardi di euro all'anno. Italia e Spagna, attualmente veri e propri free-rider, dovrebbero passare rispettivamente da 0,8 a 5,5 miliardi di euro e da 0,5 a tre miliardi (per contestualizzare, la Germania dovrebbe passare da sei a nove miliardi di euro).

 

Se l’Europa non dovesse continuare a metterci i soldi, anche a costo di una fettina del proprio benessere, l’Ucraina sarà perduta. E con essa ogni illusione di sicurezza continentale. L’Unione europea è nata per consolidare e difendere lo Stato di diritto nazionale e internazionale (non «per fregare gli Usa», come sostiene il leader americano, ignorandone o distorcendone la storia). Ma se a vigere tornerà ancora una volta la legge del più forte, e le nostre stelle gialle non si faranno trovare preparate, dimostrandosi capaci di superare con creatività le tante opposizioni interne, allora avremo perso in partenza. Non solo la nostra anima ma proprio quell’Unione faticosamente costruita e che in troppi, troppo spesso, diamo per scontata. O, peggio, inutile.

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