Quando Israele ha attaccato l’Iran, Mohammad Tolouei era a Madrid, impegnato nel tour di promozione delle traduzioni del suo ultimo romanzo, “Enciclopedia dei sogni” (Bompiani). Ed è ancora in Europa, tra bollettini di guerra sempre più invadenti e sporadiche notizie dei suoi cari in Iran. In questo tempo sospeso ha accettato di parlare con L’Espresso del suo Paese, un Paese che negli anni ha girato in lungo e in largo, entrando in contatto con tutti gli strati della società, come racconta nei suoi libri. Per il futuro, una sola cosa è chiara: «Voglio tornare dai miei, e se questo significa morire, voglio morire con loro».
L’attacco di Israele era nell’aria da tempo. Com’era l’atmosfera quando lei è partito?
«Quando ho lasciato l’Iran l’atmosfera era tesa, ma nessuno pensava che la guerra fosse probabile. L’Iran stava negoziando con gli Usa, e tutti pensavamo che finché i negoziati erano in corso non ci sarebbe stata una guerra. Penso che molti politici iraniani fossero ottimisti riguardo all’esito dei negoziati. Ma a quanto pare, Israele stava progettando questo attacco proprio in quei giorni».
Il titolo del suo ultimo libro è “Enciclopedia dei sogni”, ma cos’è per lei l’attacco di Israele: un incubo che si avvera o una spinta, per quanto tragica, verso il cambiamento?
«Credo che questo attacco sia un incubo per entrambe le parti: gli israeliani non sono mai stati coinvolti in una guerra come questa, prima d’ora. Il loro governo si è sempre messo contro governi deboli, ora invece stanno sentendo il sapore di una guerra vera, con tutte le paure che comporta. Sia noi che loro, tutti noi che viviamo in Medio Oriente, siamo abituati a questi incubi. La strategia difensiva immediata riguardo alla guerra è stata buttarla sul ridere. C’è una battuta in Iran, dice che gli israeliani lavorano di giorno e gli iraniani di notte, gli israeliani attaccano di giorno e gli iraniani di notte. Questo incubo però viene visto diversamente dalle due parti: Israele spera che questa guerra finisca presto, il governo iraniano invece vuole che duri a lungo. Ma se dura a lungo, sarà un incubo peggiore per tutte le forze democratiche, sia in Israele sia in Iran».
Qual è l’opinione comune degli iraniani verso il governo israeliano? Sarebbero disposti a combattere contro Israele?
«Israele non ha nessuna giustificazione morale per aver attaccato l’Iran con la scusa che potrebbe avere armi nucleari. Un Paese che sta facendo morire di fame un intero popolo innocente a Gaza non dovrebbe illudersi di poter trovare giustificazioni morali per le sue azioni. Un governo che non capisce il significato della parola libertà non può pretendere di portare al nostro popolo libertà o cambiamento. Chiunque abbia avuto questa idea ha commesso un errore. Gli iraniani non sono felici del loro governo, ma non vogliono collaborare con Israele per farlo cadere. È come se qualcuno andasse da un vicino aggressivo per chiedergli di aiutarlo a liberarsi di un padre violento. Per ora non credo che l’opinione pubblica sia definita, ma se la guerra si protrae, il numero delle vittime civili aumenta e il ministro della difesa israeliano continua a dire cose stupide come “bruceremo Teheran”, gli iraniani si rivolteranno contro Israele».
Com’era, finora, il rapporto con la minoranza ebraica nel Paese?
«Non ho mai visto o sentito di antisemitismo tra gli iraniani: forse i governanti o gli estremisti religiosi hanno preso decisioni antisemite, ma non la gente comune. E non credo che la situazione peggiorerà. L’Iran è sempre stato un rifugio sicuro per gli ebrei: mentre l’Europa li massacrava, l’Iran li ha sempre accolti, e penso che lo faccia ancora».
E com’è a suo parere il feeling verso i palestinesi? In Italia ci si aspetta che ci sia un senso di fratellanza ma in realtà è più complicato, perché loro sono arabi, e sono sunniti. Sui giornali italiani si sono visti filmati di abitanti della penisola araba che guardavano in video gli attacchi e facevano un tifo da stadio per Israele.
«Credo che negli ultimi anni ci siano stati sentimenti conflittuali verso i palestinesi. Gli iraniani hanno aiutato i palestinesi anche durante il regno dello scià, quando l’Iran era il più importate alleato di Israele nella regione. Parte dell’attuale antipatia è un effetto della eccessiva propaganda del governo a sostegno della Palestina. E in realtà l’opposizione alla Palestina è avvolta in uno strato di opposizione al governo. Gli iraniani sono convinti che i palestinesi abbiano il diritto alla propria terra, ma sono stanchi di dover pagare il prezzo per questo, e di essere costantemente sotto pressione».
E gli americani? Sotto lo scià erano i padroni di casa, con gli ayatollah sono diventati i nemici numero uno, ma come sono visti dalla popolazione?
«Malgrado cinquant’anni di propaganda, gli iraniani non danno agli Stati Uniti la colpa del regime dello scià. E non lo considerano un periodo brillante o importante: guardiamo a quel periodo realisticamente, ne vediamo i punti di forza e quelli di debolezza».
Il figlio dello scià, Reza Ciro Pahlavi, si è affrettato a dire che è a disposizione. Ma il futuro dell’Iran può essere solo un remake del passato, un regime fatto di corruzione e obbedienza cieca agli Usa? Lei cosa spera?
«Credo che Pahlavi abbia distrutto ogni possibilità di un futuro politico con una sola dichiarazione affrettata: il popolo iraniano non dimenticherà mai la sua collusione con il nemico, non la perdonerà. Anche se una parte della società è monarchica, anche se la Repubblica Islamica affrontasse cambiamenti drastici o venisse abolita, non credo proprio che torneremmo a un regime come quello degli scià. Da un punto di vista intellettuale, i monarchici non sono molto diversi da chi appoggia la Repubblica Islamica: e le forze democratiche del Paese non sono interessate a passare da una tirannia all’altra».
Il suo libro è un on the road che tocca diverse città e diversi strati della società iraniana. Come descriverebbe il rapporto degli iraniani con il regime attuale?
«Il mio libro parla della vita della classe media urbana in Iran. Sono persone separate da un gap ideologico rispetto al governo. È un distacco che esiste da anni e che aumenta ogni volta che per qualche motivo la tensione nella società si riaccende. In realtà il governo iraniano vuole imporre a tutti lo stile di vita che considera giusto. E la principale forma di resistenza del popolo è rifiutare di assimilare queste idee. La gente vuole vivere come vuole, non come viene imposto dall’alto: il mio libro racconta questa resistenza sottile e costante».
Che programmi ha lei ora? Quando e come pensa di tornare a Teheran?
«Tornerò in Iran come previsto, appena gli incontri programmati per il libro saranno finiti. Non voglio perdere l’occasione di vivere questi giorni, per nessun motivo».