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24 luglio, 2025La transizione democratica ha tempi lunghi, dice Arash Azizi fuggito dalle persecuzioni. All’ombra della teocrazia al tramonto, fazioni militari ed economiche
Quando nel 2022, a seguito della morte di Mahsa Amini, la società civile e le donne iraniane sfidano il regime scandendo a pieni polmoni “donne, vita, libertà” per le strade dell’Iran, Arash Azizi ha già abbandonato il suo Paese da quattordici anni, nel 2008.
«Ero un’attivista ed ero costantemente preso di mira dal regime. Se non me ne fossi andato, era chiaro che sarei stato messo in prigione per molto tempo», racconta Azizi, editorialista di giornali come il Washington Post e il Guardian, docente e ricercatore post-dottorale a Yale.
Nel 2024 pubblica “L’Iran in fiamme: donne, vita, libertà”, un volume edito in Italia da Solferino che partendo dalle proteste della società civile iraniana, che scossero il regime e vennero ammirate da tutto il mondo, ricostruisce il loro significato e spiega perché per la teocrazia guidata da Khamenei rimettere la sabbia dentro la clessidra sarebbe stato molto complesso.
La Guerra dei Dodici Giorni, così ribattezzata dal presidente statunitense Donald Trump, tra Israele e Iran, in cui gli Stati Uniti hanno attaccato i siti nucleari iraniani e a cui è seguita una flebile risposta da parte di Teheran, diventa l’occasione per Azizi di riflettere sul futuro del suo Paese, del regime e della società civile.
«Il regime è in evoluzione. Khamenei si nasconde e fazioni militari ed economiche si contendono il futuro del Paese. Pochi tra di loro hanno ancora qualcosa della vecchia ideologia del Grande Ayatollah e stanno combattendo su questioni più pragmatiche», spiega Azizi. «Il regime si trova nello stato di maggiore vulnerabilità della sua storia ed è molto probabile che si trasformi in un modo o nell’altro, nonostante le sue istituzioni si siano spesso dimostrate sorprendentemente resistenti».
Nei dodici giorni in cui cieli iraniani e israeliani sono stati accesi dalle luci dei missili, si è creato un dualismo all’interno di chi, seppur in opposizione al regime, si è trovato a dover pensare all’incolumità del proprio Paese, delle abitazioni, dei familiari, della propria vita.
«Tra coloro che supportano il movimento Donne, Vita, Libertà, l’opposizione al regime è costante, forse è anche cresciuta. Inizialmente, quando Israele ha ucciso i membri della Guardia Rivoluzionaria alcuni di loro hanno esultato», racconta Azizi. «Ma in un secondo momento la loro priorità è diventata rimanere in vita e difendere i propri concittadini e il proprio Paese. La società civile iraniana è resiliente, ma ha perso un po’ della sua ingenuità su quanto sia facile arrivare a un vero cambiamento. L’opposizione politica ha fallito nel dare un’alternativa al regime e adesso è stanca e malridotta. Continuerà a portare avanti le proprie istanze, ma forse con ambizioni più ridotte».
Con l’ansia di chi vive a migliaia di chilometri di distanza, ma ha ancora persone care in Iran, Azizi, nel corso dei dodici giorni di conflitto è stato in contatto continuo con persone che osservavano i missili israeliani volare sopra le proprie teste. Oltre alla paura, anche un sentimento di orgoglio. «Parlo ogni settimana con persone che sono in Iran. Durante il conflitto hanno mostrato un notevole spirito di solidarietà. C’è chi permetteva agli sfollati di alloggiare nelle proprie case (cartelli con inviti a entrare erano disseminati per tutto il Paese), hanno cercato di non speculare troppo e il cibo era ampiamente disponibile».
Nelle convulse giornate passate con l’attenzione rivolta verso Teheran e Tel Aviv, ma anche alla Casa Bianca, sono tornate alla ribalta figure politiche in esilio come Reza Pahlavi, figlio dello scià, e Maryam Rajavi, presidente eletta del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana. Azizi non è convinto che il loro sforzo possa essere di aiuto al popolo iraniano.
«Maryam Rajavi non piace a gran parte della popolazione iraniana, mentre Reza Pahlavi è un inetto che non ha mai costruito un progetto di opposizione che abbia avuto successo. Peggio ancora, si è circondato di un nocivo movimento sciovinista. Non credo che loro siano la soluzione. Gli attivisti e i riformisti iraniani possono essere vettori di democratizzazione migliori – spiega – Da attivista pro-democrazia, il mio desiderio è quello di vedere una transizione democratica. Il migliore dei casi è che si crei un movimento sufficientemente ampio da contribuire alla realizzazione di questo scenario. Al momento, però, siamo ancora lontani. In queste condizioni, lo scenario immediatamente migliore è che figure più ragionevoli all’interno del regime prendano il sopravvento, riducano la repressione e portino l’Iran in una direzione più pragmatica e pacifica».
Dopo quattordici anni di esilio, Azizi sogna un giorno di poter rientrare in Iran. Ci era andato vicino nel 2009, racconta, ma l’ascesa del Movimento Verde, le persone che scesero in piazza per chiedere l’annullamento delle elezioni vinte in maniera fraudolenta da Ahmadinejad, lo avrebbe reso un bersaglio. Così come lo sarebbe ancora oggi.
«Mio padre qualche anno fa è tornato in Iran ed è stato arrestato e condannato a 8 anni di carcere. Scontò una parte della condanna e dopo essere stato rilasciato tornò in Canada», racconta Azizi. «Nonostante questo, il mio cuore rimane con l’Iran e spero di tornare per riuscire a ricostruire il mio Paese una volta che questa lunga notte di repressione finirà. Ho vissuto a New York, Parigi, Tel Aviv e altri grandi città, ma Teheran rimane qualcosa di diverso per me. Sono cresciuto immerso nei film, nella letteratura, nei caffè. Raramente, ho trovato città colte come la Teheran della mia giovinezza».
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