Fu trovato morto il 15 luglio 2020 in Colombia, dove lavorava per le Nazioni Unite. Per l'Onu, l'allora trentatreenne si sarebbe suicidato. Ma la famiglia non ci sta: "Mario non si è tolto la vita, continueremo a lottare per verità"

Caso Paciolla, il gip di Roma ha archiviato l’inchiesta sulla morte del cooperante italiano

Si chiude un altro spiraglio nella ricerca della verità sul caso di Mario Paciolla. Lunedì 30 giugno, il giudice per le indagini preliminari (gip) di Roma ha disposto l’archiviazione del procedimento per la morte del cooperante italiano trovato senza vita nel suo appartamento di San Vicente del Caguán, in Colombia, il 15 luglio 2020. La decisione, presa a seguito della seconda richiesta da parte della Procura di Roma e nonostante l’opposizione della famiglia, chiude per ora la vicenda sul piano giudiziario. 

 

Il giorno della sua scomparsa aveva trentatré anni e lavorava nella missione Onu incaricata di verificare e sostenere il processo di pace tra il governo colombiano e le ex Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc). Per le Nazioni Unite, Paciolla si sarebbe suicidato, ma - come rivelato da L'Espresso - esistono diversi elementi che mettono in dubbio questa versione dei fatti: pochi giorni prima aveva confidato di sentirsi in pericolo di vita; aveva comprato un volo per tornare in Italia; un funzionario Onu avrebbe ripulito la scena con candeggina prima dell’arrivo della polizia

 

"Noi sappiamo non solo con le certezze del nostro cuore ma con le evidenze della ragione che Mario non si è tolto la vita ma è stato ucciso perché aveva fatto troppo bene il suo lavoro, in un contesto in cui non doveva fidarsi di nessuno", hanno commentato i genitori Anna e Giuseppe, insieme alle figlie Raffaella e Paola, assistiti dalle avvocate Emanuela Motta e Alessandra Ballerini. Paciolla aveva raccolto testimonianze su gravi crimini dell’esercito colombiano, legati ai cosiddetti "falsi positivi": omicidi extragiudiziali di civili innocenti, fatti passare per guerriglieri morti durante il conflitto. Secondo più fonti, alcuni membri della missione Onu avrebbero partecipato alla copertura di questi crimini. Ex ufficiali dell’esercito colombiano, oggi rifugiati in Europa, confermano la presenza di un sistema sistematico di violenza e omertà.

 

"Continueremo a lottare finché non otterremo una verità processuale e non sarà restituita dignità a nostro figlio", prosegue la nota pubblicata dai familiari del cooperante. "Utilizziamo con rammarico e sofferenza il verbo lottare, mai avremmo pensato di dover portare avanti una battaglia per avere una giustizia che dovrebbe spettarci di diritto. Sappiamo che non siamo e non resteremo mai soli. Grazie a tutte le persone che saranno al nostro fianco fino a quando la battaglia non sarà vinta".

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