Il diplomatico spiega come cambia la geopolitica mondiale dopo l'offensiva militare israelo-americana contro l'Iran e le pretese sulla Nato di Trump: «L'Europa non ha capito come affrontare un mondo post occidentale»

L'ambasciatore Ettore Sequi: "La diplomazia si fa con la mano ferma sul grilletto"

L’ambasciatore Ettore Sequi ha un doppio, e raro, pregio: sa le cose e le sa dire. E ancora più raro, nel panorama capzioso degli analisti, è un reale conoscitore dell’Iran. Sotto il regime teocratico a Teheran è stato console (’89 – ’94) e più volte poi, in servizio a New York, Kabul, Pechino, da capo di gabinetto di tre ministri degli Esteri e infine da segretario generale della Farnesina, ne ha sperimentato modi e toni. Duri, certo, «ma anche sempre dialoganti con noi italiani durante parentesi delicate per i nostri connazionali».

Il pericolo atomico è stato un presupposto o soltanto un pretesto?

«Entrambi. Il rischio era reale, ma Israele ha voluto risolvere una minaccia esistenziale. L’arma nucleare iraniana è una minaccia concreta, ma è servita anche a giustificare un riequilibrio strategico. Il problema di Israele non era solo cosa fare con l’atomica iraniana, ma cosa fare con il regime».

Per la prima volta un presidente americano ha ordinato un attacco contro i siti nucleari in Iran, è uno scenario che il regime non aveva previsto?

«Teheran si era convinta che bastasse rimanere sotto la soglia nucleare per evitare un attacco. Il raid su Fordow ha demolito questa illusione. È stato un colpo al cuore della dottrina iraniana dell’ambiguità strategica, la “latenza nucleare”, “non completare l’arma”. Non è bastato».

Donald Trump è più sensibile ai disegni geostrategici di Benjamin Netanyahu che alle richieste del suo elettorato di base?

«Trump ha visto un’occasione e ha fatto una scommessa. Netanyahu gli ha offerto visibilità e un nemico perfetto e lo ha trascinato in questa operazione. Oggi è Israele che detta il passo, Washington segue».

Un presidente americano, che ordina un attacco dopo che si è preso due settimane di riflessione e l’indomani annuncia una tregua con Teheran, è un presidente, come sostiene Lucio Caracciolo, che firma patti con “inchiostro simpatico”, cioè umorale e inaffidabile, oppure è davvero un tipo di leadership?

«Il generale cinese Sun Tzu diceva che ogni guerra si basa sull’inganno. Trump applica quel principio alla politica e trasforma le relazioni in un confronto di forza. È una forma di leadership, ma anche un’inclinazione personale. Colpisce per intimidire, alza la posta per negoziare con la pistola sul tavolo. Anche l’imprevedibilità è parte del suo arsenale. La definisco deterrenza informativa: disorientare per condizionare. La domanda è fino a che punto questo giovi alla credibilità americana».

L’asse Washington – Tel Aviv è fuori discussione. Quale è il principale motivo di questa speciale sintonia?

«Perché Israele è l’unico alleato regionale stabile, armato e allineato. La sua esistenza garantisce all’America un presidio in uno spazio strategico cruciale. È parte del dispositivo di potere americano, non un partner a contratto».

Nelle prime ore di guerra Netanyahu si è richiamato al popolo iraniano, invece poi le paure dei dissidenti e del regime teocratico si sono assomigliate: dalle bombe non nascono democrazie, ma dittature ancora più feroci?

«Sì. I regimi crollano con la forza, ma le istituzioni non nascono con gli “air strike”. Se il regime iraniano implode senza un piano per il dopo, emergerà caos e forse un regime ancor più pericoloso. A Israele non interessa esportare la democrazia. Voleva la fine di un nemico esistenziale».

La matrice di questa guerra, senza andare troppo in là nel tempo, risale all’uscita della Casa Bianca di Trump dall’accordo sul nucleare sottoscritto da Barack Obama oppure alla minaccia a Israele che Teheran negli anni ha seminato con i suoi alleati regionali?

«Sono due facce della stessa crisi. Il ritiro americano ha tolto i vincoli, ma è l’aggressività iraniana – Hezbollah, Siria, Yemen, Iraq – che ha reso la soglia intollerabile per Israele. La pazienza strategica si è esaurita. L’allineamento astrale era favorevole. I proxy iraniani, uno dopo l’altro, si erano indeboliti».

La fine di una proiezione esterna di Teheran spingerà il Medio Oriente nel pieno controllo delle petromonarchie del Golfo. Facile ipotizzare che l’Arabia Saudita ne assuma la guida con l’avallo di Washington e, un domani, anche di Israele?

«Sì, ma condizionato. Oggi Riad è l'alleato chiave degli Stati Uniti. L’Arabia Saudita può assumere una leadership regionale, ma senza una soluzione palestinese Riad non può diventare il pilastro di un nuovo ordine».

L’Iran ha certificato la scarsa rilevanza della Russia di Vladimir Putin o la prudenza di Mosca è dettata da una convergenza con Washington sull’Ucraina?

«La Russia ha scelto di restare ai margini per salvaguardare il rapporto con Trump. Mosca non vuole sacrificare l’Ucraina per l’Iran e usa l’Iran come leva negoziale indiretta. Il suo silenzio serve a dire a Washington che un’intesa sull’Ucraina è possibile se il prezzo è accettabile».

Perché la Cina mantiene una posizione così defilata?

«Perché trae vantaggio dall’ambiguità. Compra energia da Teheran, investe nel Golfo, e ogni logoramento dell’egemonia americana le apre spazi. L’Iran è solo il sesto fornitore di petrolio della Cina, ma per Hormuz passa la metà degli approvvigionamenti energetici cinesi e un aumento del prezzo dell’energia sarebbe devastante per Pechino. La Cina non vuole instabilità, ma nemmeno l’ordine firmato Usa».

L’Europa appare più stordita del solito. È chiamata ad armarsi contro il pericolo russo, ma i nuovi conflitti nel mondo non provengono dalla Russia e la stessa Russia se ne sta alla larga, cosa sta succedendo?

«Sta succedendo che l’Europa pensa a come reagire a un’aggressione russa, ma non è attrezzata per affrontare un mondo post-occidentale. Chiede deterrenza contro Mosca ma resta paralizzata quando la crisi viene da Washington, da Tel Aviv o da Teheran. In uno scenario multipolare l’Europa è troppo dipendente dagli Stati Uniti per criticare Israele, troppo frammentata per incidere. Invoca ordine, ma non è in grado di generarlo. E senza una politica estera autonoma, rischia di essere spettatrice».

Perché il governo italiano, a differenza di Madrid e di Parigi, non è riuscito mai a pronunciare parole di condanna per il massacro israeliano a Gaza?

«Roma non vuole inaridire i canali con Israele e perdere centralità con Washington».

Questo ha un prezzo, almeno morale?

«Ogni scelta ha un prezzo. E ha conseguenze. Anche il silenzio lo ha. È la solitudine della leadership: assumersi il peso, ma anche la responsabilità di ciò che si tace o di ciò che si dice».

Potremmo sostenere che con la fine del multilateralismo, per esempio dell’Onu, la sicurezza del mondo sia delegata a chi ha sempre la mano sul grilletto e maggiore prontezza ad aprire il fuoco?

«È un rischio. L’Onu è marginale, i trattati vincolano solo chi non ha il potere di violarli. La forza torna a dettare il diritto. La deterrenza non è più una dottrina, ma una pratica quotidiana. Chi ha la mano più ferma sul grilletto, soprattutto quello nucleare, impone le condizioni».

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