Opinioni
17 luglio, 2025Il patron di Tesla sembra dire a Trump: se vuoi la mia piattaforma e i miei voti, tutela i miei interessi
C’è qualcosa di ciclico nel modo in cui il potere economico si affaccia sulla soglia della politica. L’idea che basti un capitale, un carisma e un medium per costruire una leadership. È accaduto in Italia con Silvio Berlusconi: imprenditore nato dal nulla, artefice di un impero mediatico, trasformatosi in leader politico nel momento in cui ha avvertito il rischio di perdere tutto. Ora qualcuno vede in Elon Musk il suo alter ego americano, pronto a replicarne l’ascesa. Due uomini ricchissimi, due dominatori della comunicazione, due imprenditori vincenti che a un certo punto decidono di diventare leader politici. Eppure, quella somiglianza è solo una superficie riflettente. Dietro, le differenze sono profonde.
Come Berlusconi, Musk ha costruito un impero. Non con il cemento, ma con il silicio e la visione: auto elettriche, viaggi spaziali, intelligenze artificiali. Come Berlusconi, dispone di un potentissimo strumento di comunicazione: se il primo aveva la televisione commerciale, Musk ha Twitter. E come Berlusconi si presenta come un outsider chiamato a difendere una democrazia che, dice, è sotto assedio. Ma è qui che finiscono le somiglianze.
Berlusconi aveva un Paese da conquistare, ma anche una minaccia da disinnescare: l’avvento della sinistra al potere. Aveva un sistema mediatico già solido e un consenso trasversale da incanalare. L’ingresso in politica fu al tempo stesso un’operazione di marketing e un atto di autodifesa. Anche Musk, certo, ha interessi economici giganteschi – Tesla, SpaceX, Neuralink – che richiedono protezione e accesso diretto ai centri decisionali di Washington. Ma il suo sguardo sulla politica americana è quello dell’imprenditore che vuole sedersi al tavolo dove si decidono le regole.
Ecco perché non è detto che il partito di Musk vedrà mai la luce. La sua potrebbe alla fine rivelarsi una minaccia, più che un progetto. Non un disegno strategico, ma un messaggio lanciato a Donald Trump: se vuoi la mia piattaforma e i miei voti, devi tutelare i miei interessi.
Trump, d’altra parte, sa di aver bisogno di Musk. I sondaggi parlano chiaro: tra i giovani maschi bianchi e libertari, Musk è un’icona. È l’uomo che sfida il politicamente corretto, che promuove la libertà di parola anche quando sfocia nella disinformazione: tenerlo dalla sua parte gli permette di conquistare quell’elettorato fluttuante che disprezza le élite, ma diffida del populismo rozzo.
E qui sta il punto. Berlusconi aveva un popolo: la “maggioranza silenziosa” che lo adorava. Musk ha dei follower. Ha influenza, ma non consenso. Ha attenzione, ma non ancora legittimità politica. Soprattutto, non ha una struttura. Né un partito né un radicamento territoriale. La politica americana, al netto delle sue distorsioni, è ancora un sistema con barriere d’ingresso elevate. E Musk, allergico alle regole, non è certo il tipo da seguire le liturgie delle primarie, le campagne porta a porta, gli endorsement faticosi.
Ciò che vuole Musk non è la Casa Bianca (alla quale non può aspirare, non essendo nato negli Usa) ma una posizione da kingmaker. Vuole essere ascoltato da chi comanda, condizionare le decisioni sui sussidi, sull’intelligenza artificiale, sulle regole del web. E se per ottenere questo è necessario evocare un partito, lo farà. Ma se Trump gli offrirà l’orecchio e un ruolo, allora la minaccia si sgonfierà da sola. Il partito personale resterà un titolo sui giornali, o magari un meme su X.
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