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30 luglio, 2025Una generazione di under 40 in campo in vista delle elezioni di midterm. A guidarli Saikat Chakrabarti che a San Francisco prova a scalzare una veterana come Nancy Pelosi
Dopo il colpo di scena newyorkese del giovane Zohran Mamdani, il socialista democratico che ha battuto clamorosamente il titano Andrew Cuomo alle primarie dem per la poltrona di sindaco, anche sulla costa Ovest soffia un vento di rivolta. A crederci è Saikat Chakrabarti, stratega dell’ascesa di Alexandria Ocasio-Cortez, che ora punta al cuore del potere: lo storico seggio di Nancy Pelosi a San Francisco, che l’ex speaker della Camera occupa ininterrottamente dal 1987. In un partito affaticato, che arranca nei sondaggi e balbetta davanti al trumpismo dilagante, la sua candidatura è il megafono di una generazione arrabbiata, allergica ai compromessi. È l’assalto frontale di chi non crede più alla politica della prudenza e sogna di rottamare i dinosauri di Washington.
Classe 1986, nato a Fort Worth, in Texas, da una famiglia di immigrati bengalesi, Chakrabarti incarna il mito del self-made man. Ha studiato nelle scuole pubbliche, si è laureato in ingegneria informatica ad Harvard prima di intraprendere una carriera fulminante tra Wall Street e la Silicon Valley californiana, dove ha accumulato un patrimonio milionario lavorando per alcune delle aziende tech più potenti del Paese.
Eppure, invece di godersi i dividendi dell’élite tecnologica, ha scelto di mollare tutto per inseguire la vocazione politica. Folgorato da Bernie Sanders, è stato un ingranaggio decisivo della campagna presidenziale del senatore socialista del Vermont nel 2016, per poi diventare il cervello operativo dietro il miracolo elettorale di Ocasio-Cortez che nel 2018 depose il potente Joe Crowley dal suo seggio blindato newyorkese. Dopo un periodo come capo gabinetto della rockstar della sinistra americana a Capitol Hill, Chakrabarti oggi si mette in proprio, puntando alle primarie democratiche in vista delle midterm del prossimo anno, quando si rinnoveranno tutti i seggi alla Camera.
Lo intercettiamo in una giornata elettorale qualunque, nel quartier generale della Bay Area. Ci spiega la linea: nessun evento patinato, solo una campagna artigianale, gestita da volontari e quasi interamente autofinanziata. «Stiamo mettendo su la più grande operazione porta a porta mai vista a San Francisco. L’obiettivo è parlare direttamente con almeno un quarto dei votanti. Centomila persone, una a una». Da raggiungere anche attraverso i social, ovviamente. «Non usarli bene significa commettere un errore politico gravissimo, non parlare la lingua del nostro tempo. Ma non sono la strategia». Solo il punto di partenza. «Se non hai un messaggio vero, le persone non ti ascoltano».
L’ossessione di Chakrabarti è spezzare l’inerzia di un partito democratico incapace di leggere i bisogni reali del Paese. La sua visione è una classe dirigente decisa ad affrontare priorità ignorate troppo a lungo: diseguaglianze crescenti, affitti insostenibili, salari stagnanti e crisi di rappresentanza.
E la sua non è che l’avanguardia di una piccola armata di outsider under 40. La più fresca è la travolgente Kat Abughazaleh, ventiseienne progressista texano-palestinese e star dei social, che in Illinois sfida l’ottantunenne Jan Schakowsky. Era da decenni che il 9º distretto non viveva primarie competitive.
A Los Angeles, Jake Rakov, 37 anni, infrange il patto di fedeltà con il mentore Brad Sherman e tenta di sradicarlo dal Congresso. In Michigan, la senatrice statale Mallory McMorrow, 38 anni, è pronta a fare il salto più lungo, verso Washington. Con un carisma che a qualcuno ricorda quello del primo Obama, personifica una generazione cresciuta con la zavorra dei debiti universitari e il sospetto (inedito da questa parte dell’Atlantico) che il futuro possa essere peggiore del passato.
La frattura tra le due anime del partito era iniziata già alle scorse elezioni, con la mal digerita candidatura di Joe Biden. Le crepe si sono allargate a fine 2024, quando Alexandria Ocasio-Cortez e altri giovani deputati hanno sfidato senza successo i “padri” per conquistare spazio nelle commissioni parlamentari. La rottura definitiva si è consumata a marzo in Senato, quando il settantaquattrenne capogruppo di minoranza Chuck Schumer ha appoggiato la legge di spesa repubblicana pur di evitare la paralisi di governo.
La misura è colma, ci dice Chakrabarti. E voltare pagina per lui significa sfidare l’ex presidente della Camera, ultima vestale del partito. Poco importa che sia celebrata come un’eroina. «Rispetto il suo percorso – premette – Ma Nancy Pelosi è una figura che difende lo status quo».
Tra gli analisti più ortodossi c’è chi minimizza, sostenendo che la speaker emerita non si sia nemmeno accorta della campagna del “moscerino”. Sarà. Ma l’ultimo a sottovalutare, si è visto sfilare la poltrona da una «bartender del Bronx». «Come accadde durante la campagna di Alexandria Ocasio-Cortez, anche oggi c’è un malessere diffuso. In quel frangente Trump aveva appena vinto e i democratici erano delusi. Credo che ora la richiesta di cambiamento sia più forte».
Nel suo manifesto populista, Chakrabarti mette sul tavolo sanità pubblica per tutti, stipendi più alti e investimenti per rilanciare settori industriali a elevata produttività. «Il costo dei beni essenziali – come l’assistenza sanitaria, l’assistenza all’infanzia, l’istruzione – è alle stelle. In queste situazioni le persone votano per un cambiamento economico radicale ogni volta che ne hanno l’opportunità. Lo hanno fatto a livello nazionale con Barack Obama nel 2008, ma anche con Trump nel 2016 e nel 2024».
Eppure, lamenta, l’attuale partito democratico affronta questa contingenza come se fosse semplice politica ordinaria, affidandosi alla legge dell’alternanza. «Non prendono sul serio i danni che stanno facendo i repubblicani, i tagli alla spesa sociale ma anche la reale minaccia alla democrazia. Nell’ultimo bilancio l’Ice (l’agenzia federale a presidio dei confini) ha ottenuto fondi record. Ora agenti senza tesserino, su furgoni anonimi, prelevano immigrati per strada. È l’inizio di una polizia personale fedele al presidente».
E aggiunge: «Se guardiamo i sondaggi nazionali, Trump è molto impopolare, ma noi abbiamo numeri peggiori». E difatti secondo Cnn solo il 28% degli intervistati ha un’opinione favorevole della sinistra, il dato più basso degli ultimi trent’anni.
Persino il voto delle minoranze, un tempo granitico, oggi è più fluido. Un’analisi che condivide anche Bhaskar Sunkara, direttore della rivista progressista Jacobin. «Il marchio “Partito Democratico” è diventato tossico per la classe lavoratrice. Tanti – tra cui tanti latinos e anche uomini afroamericani – alle ultime elezioni hanno infatti votato Trump», afferma: «Il partito è troppo focalizzato su temi culturali e sociali, spesso con posizioni più radicali rispetto a quelle della maggioranza del Paese. Punta sempre più al voto dei professionisti urbani e dei ceti benestanti, più progressisti sui temi culturali ma distanti dalle priorità economiche della working class».
I giovani leader progressisti, al contrario, trovano consenso proprio dove l’establishment ha smesso di guardare. «Come Mamdani e Ocasio-Cortez, io affronto i problemi reali che le persone vivono non solo in California o a New York, ma in ogni angolo del Paese», sottolinea Saikat Chakrabarti. Per i dem oggi non si augura una figura messianica, come è stato il tycoon per i repubblicani. «Non basta un leader, serve un movimento – dice – Sto girando l’America per trovare altri candidati che vogliano correre con me. Per tornare a vincere, abbiamo bisogno di volti completamente nuovi: gente pronta non solo a guidare il partito, ma a incarnarlo».
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