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18 agosto, 2025Il piano alimentare è giunto dopo le accuse di concorso diretto per le forniture militari che l’Idf ha usato sui civili di Gaza. E Trump vede vacillare il consenso del mondo Maga
Un pezzo di pane. È tutto ciò che un bambino di Gaza ha chiesto per il suo compleanno, in una città dove interi quartieri sono stati rasi al suolo, molti coetanei uccisi e i fratellini piegati dalla febbre, dalla fame e dalle infezioni causate dalle pessime condizioni igieniche. Questa, però, non è una storia triste, ma il racconto di un momento di umanità. Quella di Yousra, collaboratrice dell’organizzazione Inara (International network for aid, relief and assistance) che, saputo il desiderio, ha utilizzato l’unico giorno libero per mettere insieme alcune pagnotte, rare come l’oro, e una candelina da far spegnere al festeggiato, incredulo davanti alla sua “torta di pane”.
Finché si riuscirà a sorridere anche all’inferno, la guerra non potrà cancellare l’anima di un popolo. Arwa Damon, storica inviata della Cnn, ci crede: ha lasciato il giornalismo per guidare questa associazione che assiste i rifugiati. La sua arma oggi è l’ordinario: piccole fughe dal dolore, per ricordare al mondo che i palestinesi sono persone. «Non c’è un’altra popolazione che sia stata storicamente così tanto disumanizzata», ci dice l’attivista siro-americana. «È inaccettabile dover continuamente ribadire che vivono, amano e ridono come chiunque altro».
Lei conosce bene la fame di Gaza. Per anni ha raccontato le crisi in tutto il Medio Oriente, inclusa la Striscia, dove è entrata quattro volte prima che Israele le negasse l’accesso. Sono state necessarie le immagini della gente letteralmente morta di fame per spingere il mondo a indignarsi e Donald Trump ad annunciare un maggiore impegno Usa nella gestione dell’emergenza. I decessi sono ormai nell’ordine delle centinaia, malgrado Benjamin Netanyahu bolli come infondate le accuse di politiche apposite per affamare la popolazione. Anzi, il premier israeliano ha fortemente menomato l’operatività delle agenzie Onu e incolpato Hamas di rubare gli aiuti usandoli come arma politica. Giustificando così l'imposizione del blocco nonostante «un rapporto interno del governo statunitense e uno europeo abbiano entrambi concluso che non ci fossero prove solide», spiega ancora Damon.
Secondo quanto riferito dall’ambasciatore americano in Israele Mike Huckabee, il nuovo piano prevederebbe l’aumento fino a 16 del numero di punti di distribuzione alimentare e un funzionamento ininterrotto. Un’espansione, quindi, della Gaza humanitarian foundation che da maggio sostituisce il sistema Onu ed è responsabile di una gestione ampiamente criticata, definita anzi inumana, anche a causa dei quasi mille e quattrocento palestinesi uccisi mentre cercavano di sfamarsi.
«L’idea degli Stati Uniti di prendere in mano la distribuzione di beni è un progetto destinato al fallimento», sentenzia l’attivista. «Passare da 4 a 16 hub non basterà. Le organizzazioni che sono state a Gaza negli ultimi 21 mesi sanno come fare questo lavoro, come riparare le condutture dell’acqua o portare aiuto alle persone in modo dignitoso. Hanno poi centinaia di punti di smistamento già attivi. Chiunque altro, al di fuori degli esperti umanitari, non sarà in grado».
Sebbene Trump si sia mostrato irritato con Netanyahu – fino, si dice, a urlargli al telefono – il sostegno è rimasto intatto, nonostante il primo ministro abbia perso molti consensi anche in patria. Di recente, 600 ex alti ufficiali della sicurezza israeliana hanno firmato una petizione chiedendo un intervento statunitense immediato per fermare la guerra, sostenendo che «Hamas non rappresenta più una minaccia».
La posizione della Casa Bianca resta comunque ambivalente: da un lato interviene per aumentare gli aiuti; dall’altro non mette in discussione l’appoggio militare a Israele. Nemmeno di fronte alla decisione di Netanyahu di sfollare e occupare Gaza City, presa contro il parere dello Stato maggiore, preoccupato per il destino dei civili e degli ultimi 20 ostaggi. Interpellato sul piano militare di Tel Aviv - che ha allargato il fronte dei “no” internazionale e portato la Germania, secondo fornitore dopo gli Usa, a sospendere parzialmente l’invio di armi - il presidente ha risposto: «Sarà una decisione di Israele».
«L’Idf controlla già circa l’85 per cento di Gaza. Oltre due milioni di persone sono schiacciate nel 15 per cento dell’area in cui vivevano prima del 7 ottobre; sono accampati in tende e stanno morendo di fame – ragiona Damon – Se arrivasse l’ordine di evacuare Gaza City, dove andranno i suoi novecentomila abitanti? Chi avrà ancora la forza di camminare per ore?». Parole che riflettono quanto gli americani chiedono oggi all’amministrazione: una reazione nuova e più incisiva di fronte all’emergenza umanitaria.
Sul fronte interno Trump sa di avere più di una toppa da cucire e ha già discusso un piano con l’inviato speciale Steve Witkoff. A casa negli ultimi mesi è cresciuta la percezione di una responsabilità diretta: Israele combatte con armamenti e velivoli a stelle e strisce e persino gli attacchi sui centri di distribuzione avvengono con il sostegno di Washington. Il consenso degli statunitensi a questa guerra è ai minimi storici: un sondaggio Gallup di fine luglio registra appena il 32 per cento di favorevoli. E il cambio di passo è ancora più evidente tra i giovani.
In Congresso, poi, ventisette senatori democratici si sono già espressi per bloccare gli aiuti militari. La crepa si è allargata anche in campo repubblicano: ora tra i grattacapi del presidente c’è una spaccatura nel mondo Maga. Dopo mesi di sostegno compatto a Israele e di linea dura contro le proteste pro-Palestina nei campus, una parte di alleati ha iniziato a mettere in discussione l’appoggio a Tel Aviv. La deputata Marjorie Taylor Greene, pasionaria trumpiana della Georgia, ha addirittura denunciato il genocidio.
«In campagna elettorale nessuno tra i suoi pensava: spazziamo via Gaza. Ma ora che accade, Trump subisce le stesse pressioni che hanno schiacciato Joe Biden e i Democratici», ci dice il documentarista e attivista Adam Shapiro. Il cofondatore dell’International solidarity movement, punta il dito sulla corresponsabilità americana nel dramma dei civili: «Con Biden come con Trump, governo, industria bellica, esercito e intelligence Usa hanno collaborato con Israele al genocidio. Le forniture d’armi non si sono mai fermate, salvo una breve pausa sotto Biden».
Anche il Congresso è responsabile. Nel quadro del Memorandum decennale 2019–2028 da 38 miliardi, Washington assicura all’alleato in Medio Oriente 3,3 miliardi di dollari l’anno in finanziamenti militari e altri 500 milioni per la difesa missilistica; dall’inizio della guerra, a ciò si sono aggiunti fondi straordinari e un flusso costante di armamenti. «Eppure, esistono leggi che impongono di sospendere automaticamente la vendita di armi a Paesi responsabili di gravi violazioni dei diritti umani o che bloccano gli aiuti. Israele lo fa apertamente – continua Shapiro – eppure né il presidente, né il ministro della Difesa, né la Camera, né il Senato sono intervenuti. Perciò, al di là di chi governa, gli Stati Uniti hanno le mani sporche di sangue, restano pienamente complici. Le immagini della carestia hanno provocato solo reazioni temporanee, segno di una disumanizzazione totale dei palestinesi».
Arwa Damon è ancora più dura: «Sono stata ovunque: nei territori controllati dall’Isis, in Siria con i caccia russi sopra la testa. Ma niente è inquietante come stare a Gaza e temere di essere colpita da una bomba solo perché sei un’operatrice umanitaria. Non mi sono mai sentita così spaventata: spaventata da uno Stato nazionale democraticamente eletto e sostenuto dalla più grande autoproclamata democrazia del mondo».
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