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5 agosto, 2025I soldi che l’Europa dà alla Libia per contenere gli arrivi hanno creato una filiera perversa. Con i rifugiati al centro di un sistema economico fatto di violenze ed estorsioni ripetute
Più di 71.500 persone hanno cercato di attraversare il Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa dalle coste libiche. Sono le stime di Unhcr e Oim del 2023 e sono gli ultimi dati disponibili. Questi numeri, che riguardano solo le partenze effettive dalla Libia, nascondono un mondo di violenze, torture, stupri, che avvengono nell’entroterra del Paese, lontano dallo sguardo della stampa e della società civile internazionale, nei centri di detenzione gestiti dalle milizie come veri e propri lager e finanziati dall’Unione Europea.
L’indagine “Escaping Libya Detention Industry” sviluppata da Forensis in collaborazione con Forensic Architecture, punta un faro sul sistema dei centri libici e sull’economia chiusa creata nel Paese dalle politiche di esternalizzazione delle frontiere europee, sulla pelle delle persone migranti. Il lavoro mette insieme testimonianze di sopravvissuti, immagini satellitari, dati raccolti tramite Gps e piattaforme open source, oltre a ricerche condotte da esperti e ricercatori locali. Ne emerge un quadro chiaro, che racconta con precisione come le milizie libiche si arricchiscano attraverso rapimenti e torture inflitte, spesso ripetutamente, a chi si trova ad attraversare la Libia per cercare di raggiungere l’Europa.
A spiegare come funziona è Phoebe Walton, ricercatrice di Forensis e coordinatrice del rapporto. «Si tratta di una vera e propria catena, di un’industria, in cui la guardia costiera libica intercetta le persone in mare e le riporta ai centri di detenzione, dove i trafficanti estorcono nuovamente denaro a rifugiati e migranti per riportarli in mare, dove ancora una volta vengono catturati dalla guardia costiera libica. Si crea così una sorta di filiera completa con una logica economica che lucra più volte su ciascun rifugiato o migrante».
Per le milizie armate che gestiscono i centri, il profitto, oltre che dalle estorsioni alle persone migranti, arriva anche dai fondi stanziati dall’Unione Europea e dagli Stati membri. Nell’ambito per esempio del memorandum Italia-Libia, che prevede il finanziamento dei centri come parte della “lotta congiunta contro l’immigrazione irregolare”. Due testimoni sentiti da Forensis raccontano di essere stati respinti da milizie libiche a bordo di motovedette donate dall’Italia.
Il sistema con cui i fondi Ue arrivano nelle mani delle milizie è relativamente semplice, spiega Walton: «I finanziamenti dell’Ue e degli Stati membri arrivano a diversi centri di detenzione gestiti da milizie. Nella maggior parte dei casi sono fondi che arrivano al Dcim – il Directorate for Combating Illegal Migration, un dipartimento del Ministero degli Interni libico – attraverso il Fondo Europeo per l’Africa. Il Dcim poi si occupa di distribuire le risorse ai centri di detenzione riconosciuti dallo Stato. Questo è il caso, per esempio, dei centri di Al-Maya e Ain Zara: entrambi ricevono denaro attraverso il Dcim, che lo riceve dall’Europa». Un meccanismo costruito per rimanere opaco: «Questa catena è pensata appositamente per evitare le responsabilità relative all’uso dei fondi, rendendo ogni collegamento meno trasparente possibile». L’obiettivo dell’indagine di Forensis è proprio rendere chiare queste connessioni.
Non solo: quello di detenere i migranti per conto dello Stato, che lo fa a sua volta per conto dell’Europa, è un lavoro ambito e redditizio. «Osserviamo spesso questa sorta di ambizione da parte delle milizie a trattenere i rifugiati e i migranti – racconta Walton – per essere visti come un freno alla migrazione e come un modo per ottenere legittimità agli occhi del governo di Tripoli. È così che funzionano le dinamiche di potere nel Paese in questo momento. In realtà, il Dcim è un’organizzazione ombrello di milizie locali che lavorano e traggono profitto dalla gestione della migrazione».
«Si sente più spesso parlare di Frontex e di ciò che avviene con le guardie costiere nazionali, mentre non si parla quasi mai di ciò che avviene nei centri di detenzione», commenta Walton. I centri sono ancora più lontani del mare, volutamente nascosti dallo sguardo pubblico, eppure «sono di fatto anche questi parte del confine europeo. Attraverso l’esternalizzazione siamo riusciti ad allontanare e rendere sempre più invisibili i confini, ma in realtà le risorse, il denaro e altre forme di sostegno vanno verso questi confini sempre più lontani e finiscono per costruirli».
Uno sguardo, quello occidentale, che Tripoli è particolarmente attenta a tenere lontano, soprattutto dai lager. Così, i ricercatori di Forensis hanno usato dei sistemi innovativi, come testimonianze situate e sviluppo digitale di modelli 3dD, per aiutare il pubblico a visualizzare quello che avviene in Libia: «Ci sono molti report che raccontano le violenze in Libia, ma non c’è quasi alcun movimento o reazione in Occidente contro quello che sta succedendo. Io credo che sia anche perché è impossibile vedere o immaginare che cosa sono questi posti e cosa avviene al loro interno».
Ne è nato, oltre all’indagine, un video che permette di vedere i lager e navigarli attraverso le testimonianze degli orrori che i sopravvissuti hanno sofferto e di cui sono stati testimoni. Nella speranza di generare una reazione da parte di pubblico e istituzioni. Nel frattempo, scade a novembre il termine per confutare il rinnovo automatico del memorandum Italia-Libia, che avverrà altrimenti tacitamente in febbraio, e che rischia di passare per la terza volta, ancora nel silenzio.
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