Mondo
6 agosto, 2025L’ultima disperata opera di Primo Levi, scritta poco prima del suicidio, è una denuncia dell’offesa all’umano in ogni epocae a ogni latitudine. Che guarda all’oggi. E alla Striscia
Nei bilanci letterari di fine Novecento, nelle liste dei libri decisivi del Ventesimo secolo, c’è sempre stato un posto – e resta indiscutibile – per “Se questo è un uomo”. Titolo che risuona proverbiale, ma tanto più impressionante se riconnesso ai versi che lo completano: «Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: / considerate se questo è un uomo / che lavora nel fango / che non conosce pace / che lotta per mezzo pane / che muore per un sì o per un no. / Considerate se questa è una donna, / senza capelli e senza nome / senza più forza di ricordare...».
Ma da quando l’ho scoperto, seguendo le lezioni universitarie di una poetessa, Biancamaria Frabotta, alla Sapienza – uscivamo che era buio da quel corso sui libri testimoniali del secondo Novecento, con la testa in movimento, accesi, pieni di domande – da quando ho scoperto “I sommersi e i salvati”, credo che sia in assoluto il libro più importante del secolo scorso.
L’aggettivo è blando, me ne rendo conto, fin troppo generico, ma in questo ultimo e disperato testo di Primo Levi – pubblicato nel 1986, pochi mesi prima del suicidio – c’è una posta in gioco sconvolgente, che riesce quasi a superare, proiettandola su un orizzonte più ampio, l’esperienza del Lager. Levi la riaffronta in modo diverso, ultimo e ultimativo: con una cupezza che rabbuia l’incredibile leggerezza di tono guadagnata perfino nelle pagine di “La tregua”, o in quel piccolo capolavoro di ingegneria o chimica narrativa che è “Il sistema periodico”. C’è poca, pochissima speranza nelle pagine – sospese tra memoria, saggio, pamphlet – di “I sommersi e i salvati”. Levi sente montare l’onda dei negazionismi e avverte con prostrazione il rischio che, nel cristallizzarsi, nel ripetersi, la testimonianza dei sopravvissuti alla Shoah perda forza ed efficacia. Ma va oltre, arriva nei pressi dell’indicibile, quando formula una frase perentoria e abissale come questa: «Non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. È questa una nozione scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco, leggendo le memorie altrui, e rileggendo le mie a distanza di anni». Si spinge ad affermare che si è trattato, si tratta di un discorso fatto «per conto di terzi»: «I sommersi, anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale. Settimane e mesi prima di spegnersi, avevano già perduto la virtù di osservare, ricordare, commisurare ed esprimersi. Parliamo noi in loro vece, per delega».
Ricordo l’impressione che mi fecero queste pagine alla prima lettura, con la loro nettezza, il tono aspro. Mi sembrò che toccasse una verità terribile e indigesta, che riguarda e comprende ogni catastrofe collettiva generata dalla violenza, “atti umani” – come dice il titolo del bellissimo romanzo di Han Kang, ultimo premio Nobel per la letteratura – che generano sopraffazione, distruzione, morte. Levi fa risaltare l’oggettiva impossibilità di interrogare i caduti, di conoscere la loro versione, di riscattare quel dolore che resterà senza parole. Nelle ultime pagine del romanzo di Cesare Pavese “La casa in collina” il narratore si chiede: «E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? Io non saprei cosa rispondere. Non adesso almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero».
Che cosa sanno i morti? Levi esplora coraggiosamente il senso di vergogna della sopravvivenza, la colpa di chi è rimasto vivo al posto di qualcun altro. E sulla accidentalità, casualità, sulle vie talvolta ambigue, quando non feroci, feroci e disperate, che – in uno spazio di abiezione e violenza estrema – portano qualcuno a resistere e a non soccombere scrive pagine laceranti. Un testamento autocritico al punto da essere quasi annichilente. Ma c’è un passaggio ulteriore: lì dove Levi dice che c’è «un’altra vergogna più vasta». «La vergogna del mondo».
Prima di trascrivere queste righe, mi avventuro a dire che vanno lette – credo perfino nelle intenzioni di Levi – facendo lo sforzo di estrarle dalla contingenza a cui più direttamente si riferiscono, di astrarle al punto da coglierne l’universalità.
Qui “I sommersi e i salvati” diventa il grande e disperato libro sull’offesa all’umano in ogni epoca e a ogni latitudine. Qui I sommersi e i salvati supera i confini della storia e della geografia, polverizza energicamente i distinguo lessicali, i raffronti capziosi e ipocriti, le petizioni ideologiche di varia natura. Qui “I sommersi e i salvati” diventa il libro che racconta anche la tragedia di Gaza.
«C’è chi davanti alla colpa altrui, o alla propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsene toccato», scrive Levi. Si riferisce alla maggioranza dei tedeschi nei dodici anni di Hitler, «nell’illusione che il non volere fosse un non sapere». Ma si riferisce a qualunque circostanza in cui «il mare di dolore, passato e presente» ci circonda e ci dimostra che «l’uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare». Appena oltre, lo scrittore si interroga angosciosamente sulla possibilità di un’altra Auschwitz, sull’ipotesi di «altri stermini di massa, unilaterali, sistematici, meccanicizzati, voluti a livello di governo, perpetrati su popolazioni innocenti ed inermi, e legittimati dalla dottrina del disprezzo». Una tragedia simile – è lui a rispondersi e a rispondere così – è avvenuta intorno al 1975 in Cambogia. Aggiunge che certi fattori si possono riprodurre «e si stanno riproducendo». La ricombinazione di tutti quelli che hanno portato all’Olocausto «è poco probabile ma non impossibile». Le ultime righe le lascia all’incubo dell’apocalisse nucleare.
Ho pensato molte volte, in questi anni, alle pagine di Levi. Ci ho pensato come al riflesso inaggirabile e nitido di ogni «vergogna del mondo» passata, presente, futura. Ci ho pensato di fronte alle dissertazioni di carattere geopolitico, con quella freddezza che riduce il mondo a un’astrazione, a una tavola per giocare a Risiko. Parole. All’accanimento lessicale sul termine genocidio, lecito, non lecito: è davvero così decisivo? Parole. All’estenuante insistenza sui paragoni impossibili: Gaza non è questo, non è quello, non è Srebrenica, non è, eccetera. Parole vuote.
Gaza è quello che è, quello che vediamo, che continuiamo a vedere. L’alibi del non vedere/non sapere, su cui si poteva appunto giocare la partita delle autoassoluzioni collettive rispetto alle tragedie novecentesche e perfino post-novecentesche, non regge per nessuno. Anche dove una illustre rivista italiana di geopolitica dovesse parlare (lo ha fatto) di “danni collaterali”, sono per l’appunto parole. Se il senso di impotenza è frustrante (tuttavia: nel febbraio del 2003 circa 100 milioni di persone in tutto il mondo scesero in piazza contro l’intervento in Iraq); se il senso di impotenza è frustrante, questo fissarsi ancora sulle parole, sulle soluzioni lessicali, sulle definizioni, sui paragoni possibili o impossibili è addirittura indecente.
Le parole “piene” e disperate di Levi sono prive di ogni retorica: quando parla di denutrizione, di fame, dice che sono rapidamente distruttive e «prima di distruggere paralizzano»: «Tanto più che quando sono preceduti da anni di segregazione, umiliazione, maltrattamenti, migrazioni forzate, lacerazione dei legami famigliari, rottura dei contatti col resto del mondo». Non nasconde che, nell’inferno estenuante della fame, vige il “prima vengo io”, ferino, non solidale. Indica le circostanze in cui il corpo umano diventa oggetto, «una cosa di nessuno», di cui si può disporre in modo arbitrario. Invita a fare, a occhi chiusi, l’esperimento concettuale di immaginare di aver trascorso mesi o anni in un ghetto, «tormentato dalla fame cronica, dalla fatica, dalla promiscuità e dall’umiliazione; e di aver visto morire intorno a sé, ad uno ad uno, i propri cari». Infine si ribella con orrore all’idea che, in qualunque contesto, «un solo innocente debba essere punito per una colpa non commessa».

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