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10 settembre, 2025I giornalisti restano scomodi testimoni da eliminare, spiega l’inviato sopravvissuto al sequestro dei talebani. Dal 7 ottobre sono morti in 270. Tutti palestinesi
È stato in quel momento, legato e bendato, che ho capito. Era cambiata la guerra, erano cambiate le sue regole. La svolta riguardava tutti: giornalisti in testa. Non eravamo più osservatori neutrali a cui non si poteva sparare. La scritta “press” sul tetto della macchina o sul giubbotto non era più un salvacondotto. Anche noi facevamo parte del conflitto. Eravamo diventati obiettivi da colpire.
Il gruppo di Taleban che ci aveva bloccato nell’Helmand, estremo Sud Ovest dell’Afghanistan, ci osservava con aria truce e sospetta. Erano arrivati a bordo delle loro moto vestiti completamente di nero imbracciando fucili automatici, i classici Ak-47. Ce li puntavano contro, alzando e abbassando la canna con la quale ci intimavano di restare fermi, il capo chino, accucciati contro un muretto di terra. Ridevano e diventavano di colpo seri. Giocavano con noi, prede inconsapevoli caduti nella trappola. Qualcuno portava la mano alla gola e mimava il taglio che ti avrebbe inferto per sgozzarti. Il nostro autista e il mio stringer, l’interprete che aveva preparato l’incontro, mugolavano soffocati dalla maglietta che ci avevano messo in testa come un cappuccio. Volevano convincerli che si trattava solo di un equivoco. Ma non c’era alcun equivoco. Eravamo sulla linea del fronte. Anzi, eravamo entrati nel loro territorio senza un visto. Eravamo nell’Emirato del Khorasan, l’antica regione persiana “dove nasce il sole” che si estendeva dal Turkmenistan all’Uzbekistan. Come se varcare una linea immaginaria di un confine, poroso e incerto, presupponesse il possesso di un permesso che nessuno dava se non a voce.
Ho pensato spesso a quel momento del marzo 2007 in queste ultime settimane. Mi scorrevano davanti tutte le immagini accumulate in 15 anni da inviato di guerra. Le autobombe che laceravano i corpi di decine di innocenti, gli occhi iniettati di rabbia e furore dei sopravvissuti, gli sguardi pieni di odio nei confronti di noi giornalisti che accorrevamo sul posto per testimoniare dal vivo queste mattanze. Capivo, solo allora, che niente sarebbe stato lo stesso.
Se la guerra in Ucraina, provocata dall’invasione russa, confermava questo cambiamento, anzi lo accentuava per l’impossibilità da parte dei giornalisti di mostrare quanto accadeva, a Gaza la trasformazione ha raggiunto il suo zenit. Per la prima volta nella storia dei conflitti è stato impedito da Israele l’ingresso nella Striscia ai media internazionali. Di fronte alle proteste della stampa di tutto il mondo sono stati opposti motivi di sicurezza. Ma il tempo ha dimostrato che impedire ai media stranieri di raccontare sul campo quanto accadeva non era un modo di proteggere l’incolumità dei loro inviati. Escludeva la possibilità di stabilire una verità oggettiva e di denunciare i fake, le bugie.
In 23 mesi, dalla mattanza del 7 ottobre 2023 a opera di Hamas e della Jihad islamica, sono morti 270 cronisti, corrispondenti, inviati, cameramen, produttori tv, free lance, filmaker. Tutti palestinesi, i soli testimoni di questa carneficina. Mai c’è stato un numero così alto di vittime tra gli operatori dei media. Supera quelli di tutte le guerre del 900 e di questo secolo sommati insieme. Comunque, una goccia nello sterminio di 65 mila civili, tra cui 20 mila bambini.
Le inchieste ufficiali, precedute spesso dalle scuse da parte dell’Idf, che parla di “tragico errore”, non sono arrivate mai a chiare conclusioni. Il caso più emblematico è stata l’uccisione di due cameraman, due corrispondenti, un fotografo e un freelance sabato 23 agosto al quarto piano dell’ospedale Nasser di Khan Younis, nel centro della Striscia di Gaza e nel campo sfollati di al-Mawasi.
Sono stati centrati da un primo colpo di un Merkava, il carro armato israeliano; un secondo proiettile, sparato poco dopo, ha raggiunto e ucciso i giornalisti accorsi per soccorrere i colleghi. Si chiama “double tap”. Un grave crimine di guerra. Alla strage ne era seguita un’altra quasi identica due giorni dopo, lunedì 25 agosto. Quattro giornalisti accampati in una tenda vicino all’ospedale al-Shifa, a Gaza city, sono raggiunti da un paio di razzi. L’Idf ha giustificato il massacro sostenendo che stavano usando una telecamera con cui Hamas spiava le mosse dei soldati israeliani. Era una telecamera fissa per le dirette di Al Jazeera.
Di fronte allo sdegno si è messa in moto la macchina della delegittimazione. Anas al-Sharif, forse il volto più noto tra i giornalisti palestinesi, vincitore di un Pulitzer nel 2024, viene denunciato come affiliato all’ala militare di Hamas. Le prove fornite dall’intelligence israeliana sono dei fogli di calcolo dei feriti e simpatizzanti del gruppo islamista in cui appare il suo nome e una foto che lo ritrae sorridente mentre abbraccia Yaya Sinwar, l’ex capo di Hamas ucciso il 16 ottobre 2024. Infine, viene ripreso un post Telegram nel quale si compiaceva con gli autori del pogrom del 7 ottobre 2023, poche ore dopo la strage. Tutti, dalle organizzazioni di categoria alle Ong hanno smentito che al-Sharif fosse simpatizzante di Hamas. Aveva anche denunciato le minacce via telefono e con messaggi dalle Forze armate israeliane che lo tenevano nel mirino e giuravano di ucciderlo. Un’inchiesta di Local call e +972, magazine israeliano, ripresa da Haaretz e da alcuni quotidiani italiani, svela la creazione recente all’interno dell’Idf di un’unità speciale nota come “cellula di legittimazione”: ha il compito di fabbricare prove contro i giornalisti.
La guerra è sporca. Soprattutto quella della propaganda. Trionfa il caos, vince la disinformazione. I giornalisti che restano scomodi testimoni da eliminare. Come accadeva a noi tre, perduti nel profondo Sud dell’Afghanistan e subito denunciati come “spie". Per questo condannati a morte con una sentenza che quel gruppo di rapitori pronunciò davanti a noi, legati mani e piedi, una fascia sugli occhi, poco prima di tagliare la testa al nostro autista.
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