Mondo
11 settembre, 2025Il vertice di Tianjin segna un momento storico e mostra il piano di Pechino per l’egemonia globale. Una sfida all’Occidente in declino. Nel silenzio di un’Europa in crisi di identità
Un nuovo mondo, le cui fattezze appaiono non molto lontane da quelle del “Brave New World” di huxleyana memoria. Non con il governo unico mondiale, come nel celebre romanzo distopico del 1932, ma all’insegna dell’aspirazione a dettare le regole di un sistema mondiale alternativo all’ordine liberale internazionale, entrato drammaticamente in crisi anche per responsabilità – e su diretta iniziativa autolesionistica (la nemesi…) – di quella che era stata appunto la «nazione guida del mondo libero».
Il 25esimo vertice della Sco (l’Organizzazione per la cooperazione di Shangai), svoltosi nei giorni scorsi a Tianjin, ha presentato una serie di istantanee forti del disegno cinese di egemonia su un Sud globale che si declina oramai sotto varie forme associative (come quella dei Brics), si rivela in pieno allargamento ed espansionismo, e sta affermando in maniera netta il suo protagonismo in chiave antioccidentale. E anche se il padrone di casa Xi Jinping preferisce non presentare la Sco – nata nel 2001 come forum di sicurezza per l’area eurasiatica promosso da Cina e Russia – alla stregua di una “santa alleanza anti-G7”, questa è invece per l’appunto la realtà. Con la leadership di Pechino che, proprio in questo summit, si è ritrovata una doppia finestra di opportunità particolarmente fruttuosa per congelare le rimostranze di chi, pur aderendo al blocco, preferirebbe non “morire cinese”. Ovvero, la “comprensione delle ragioni” dell’invasore della guerra in Ucraina, per un verso, e gli sconsiderati dazi statunitensi, per l’altro, che saldano in maniera compatta le potenze regionali in ascesa del Global South contro un Occidente che ha cessato di essere unitario e si trova sabotato nei suoi valori da un vasto catalogo di forze politiche europee di orientamento populsovranista e, soprattutto, da chi, pur sedendo alla Casa Bianca, mostra un’avversione per il paradigma della democrazia liberale non troppo diversa da quella dei capi di Stato riuniti a Tianjin.
Insomma, al di fuori del G7 non c’è più il «bar di Guerre Stellari», anche perché alcuni degli avventori stanno felicemente negli Stati Uniti del Joker-in-chief. O, per meglio dire, ci sono sempre i dittatori insieme ai leader autoritari infastiditi dalle libertà individuali e collettive, intenti però a cercare di ripulirsi, sfoderando a ciclo continuo offensive di seduzione e manipolazione (e campagne di interferenze maligne) nei confronti delle opinioni pubbliche euroamericane; e che, soprattutto, rappresentano (nel “formato Brics”) il 51 per cento della popolazione e il 40 per cento del Pil del Pianeta.
Il “momento Sco” ha visto il primo bilaterale in terra cinese fra Narendra Modi e Xi, vale a dire l’avvio del disgelo tra i due colossi asiatici e, se non si tratta di una “Cindia”, le relazioni volgono decisamente al bel tempo fra il ripristino dopo un quinquennio del commercio transfrontaliero, la ripresa dell’export di terre rare da parte di Pechino verso Nuova Delhi e la promessa di risolvere la questione del confine conteso nel Ladakh. Si prospettano ulteriori ingressi nella Sco (a partire da Armenia e Azerbaigian), mentre la Turchia di Erdogan – che possiede il secondo esercito della Nato – prosegue la linea di tenere i piedi in tutte le staffe, e accentua viepiù i toni antioccidentali. Xi e Modi hanno perorato la causa del “libero” mercato e della globalizzazione commerciale, in una riedizione del discorso del presidente cinese a Davos, inflessibile censore del protezionismo. Uno scenario ampiamente facilitato dalla rovinosa rotta decisa a Washington, e che mira a scardinare definitivamente l’ordinamento internazionale liberale rivendicando – bel paradosso – più pluralismo. Solo che, tradotta in soldoni, la proposta di governance globale multipolare emersa da Tianjin costituisce un nuovo ordine mondiale dove a dare le carte sono le autocrazie, e il bersaglio da abbattere – come ripete a ogni piè sospinto Putin, azionista di peso di questo blocco – è il modello politico liberaldemocratico (al pari di quello sociale) dell’Unione europea. E nell’avversione per la formula politica – ahinoi indebolita e deficitaria – del Vecchio Continente si ritrova anche, notoriamente, il tycoon-presidente Usa, responsabile della frattura transatlantica e colpevole, al medesimo tempo, di avere finito per supportare suo malgrado il detestato competitor cinese. Ha gettato via vent’anni di tessitura di relazioni con l’India e ha continuato a perseguire il progetto (demenziale) di separare Putin da Xi Jinping, con i risultati fallimentari resi giustappunto ancora più plasticamente plateali dal summit della Sco. Nondimeno, il suo legame con il boss del Cremlino rimane assai marcato, per chissà quali ragioni a tutti noi sconosciute – e in materia non si può far altro che rispolverare la sempiterna massima andreottiana secondo la quale «a pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina».
Lo show artico trumpiano, insomma, è già stato archiviato da un’alleanza antiatlantica che denuncia «il clima da guerra fredda» alimentato da alcuni dei suoi stessi componenti, all’insegna dello schema del rovesciamento della realtà (ennesima forma di postverità) a cui le gerarchie russe e cinesi ci hanno da tempo abituato. A voler nobilitare queste topiche clamorose si potrebbe sottolineare, altresì, che si tratta della «maledizione della politica estera» che i neopopulisti occidentali non vogliono – e non possono – capire perché le sue regole, improntate al realismo, sono antitetiche alla loro propaganda (e, a dirla tutta, malauguratamente, anche a certi “eccessi” di buone intenzioni dell’idealismo umanitario progressista). Europa, se ci sei, batti un colpo: questa è, davvero, l’ultima chiamata.
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