Opinioni
13 settembre, 2025La prova del Paese reale di fronte all’imbarazzo del governo su Israele è nella Global Sumud Flotilla
C’è un’Italia che non si volta dall'altra parte, che si rimbocca le maniche e si mette in gioco. Stufa delle ipocrisie del potere, non si rassegna alla retorica dei «canali umanitari alternativi», al minuetto felpato di sedicenti diplomatici e prende il mare verso Gaza con un carico di aiuti. È l’Italia della Global Sumud Flotilla, che non ha paura di schierarsi quando un popolo viene sterminato con una precisa strategia di annientamento per fame e che per questo si chiama genocidio. È l’Italia migliore che di fronte alle tragedie sa ritrovare energie, determinazione e un'ostinata partecipazione, anche quando salpare è un rischio, come dimostra l’attacco davanti al porto tunisino di Sidi Bou Said. È l’Italia dei 40mila di Genova e dei cortei moltiplicatisi in decine di città. Che trova rapidamente tonnellate di aiuti e medicine. È quella dei camalli che minacciano di bloccare i porti se Israele proverà a sbarrare il corridoio navale.
Davanti a questa Italia non imprevedibile, ma comunque spiazzante, il governo è in evidente imbarazzo. Stretto all’angolo delle proprie contraddizioni: da un lato il dovere di sudditanza a Trump, e dunque a Netanyahu, dall’altro la difesa di connazionali a bordo delle navi umanitarie. Se non altro per non smentire quel «prima gli italiani», mantra della destra sovranista. La tiepida risposta di Giorgia Meloni alla richiesta di protezione di Elly Schlein – quel generico «adotteremo tutte le misure di tutela», accompagnato dal ritornello sugli «altri canali per portare aiuti» – rivela tutto l’imbarazzo di un governo incastrato tra fedeltà atlantica e protezione dei propri cittadini. E spiega perché la propaganda di regime corra a sparare con le armi della delegittimazione, dello svilimento sulla mobilitazione pro-Palestina. Prova a incasellare quell’Italia nelle categorie delle appartenenze. Dimostra così la propria inadeguatezza anche nel comprendere ciò che sta davvero accadendo nel Paese. Gaza ha risvegliato un protagonismo sociale e politico che va ben oltre le bandiere del circolo della cosiddetta sinistra d’opposizione. È fatto di centri sociali e ceto medio, attivisti e sacerdoti, lavoratori e studenti, donne e uomini «di buona volontà». «Corpi viventi e disarmati», capaci di «osare la pace», come ha detto l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice. Un mondo che sfugge alle categorie del noto e semmai richiama suggestivamente la spinta del movimentismo no global di inizio secolo. Generazionalmente trasversale, collegato a una rete internazionale europea e non solo, mischia dinamismo organizzato alla spontanea voglia di non starsene con le mani in mano. Anche per dimostrare che Nazione e Unione sono parole vuote se non si ergono a baluardo di diritti e solidarietà.
Il senatore Lucio Malan, oscillando tra pericolo e ridicolo intorno a una faccenda maledettamente seria, accusa di essere «fiancheggiatori di Hamas» chi porta cibo e medicine a una popolazione affamata. Un’accusa che legittima indirettamente ogni violenza contro civili inermi, usando la stessa logica di chi giustifica le esecuzioni sommarie in nome della «sicurezza». Per Malan, evidentemente, aiutare Gaza è essere conniventi con i terroristi. Alla stessa stregua di chi bolla di antisemitismo chiunque osi obiettare che il confine dell’inumano nella Striscia è stato ampiamente superato. È accaduto nella Storia, non doveva più accadere, ma sta accadendo ancora. Non volerlo o non poterlo riconoscere, voltarsi dall’altra parte: questa è l’unica vera complicità.
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