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18 settembre, 2025Il piano di annessione procede non ufficialmente: nei fatti, tra confische di territori, nuovi insediamenti e strade dell’apartheid, è già compiuto
Chi la vorrebbe annettere si riferisce a quel pezzo di terra chiamandolo "Giudea e Samaria"; come se il solo utilizzo di un termine biblico potesse giustificare il desiderio di volerla sottrarre ai legittimi proprietari. In italiano è chiamata Cisgiordania, letteralmente "la parte di qua del Giordano". Si tratta di un territorio senza sbocco sul mare sulla riva occidentale del fiume Giordano, che i palestinesi considerano semplicemente parte della Palestina e che vorrebbero chiamare Palestina, ma che, costretti dalle divisioni operate dall'occupante, chiamano al-Diffa al-Gharbiyya.
Nel 1948, quando Israele si macchiò dei primi massacri nei confronti dei palestinesi e sulla base di quelli e sulla deportazione forzata creò il proprio Stato, la volontà di annetterla alla nascente entità era già presente. Assieme alla Striscia di Gaza, la Cisgiordania fu però risparmiata poiché era una zona più densamente popolata rispetto alle aree costiere o desertiche della Palestina storica. Annetterla già allora significava dover considerare un problema demografico ancora più grande di quello che Israele affrontò allora e che affronta ancor oggi.
Dal 1948 al 1967 la zona fu quindi sottoposta al controllo giordano. Dal 1967, in seguito alla Guerra dei sei giorni, la Cisgiordania fu occupata militarmente da Israele. Le città di Jenin, Betlemme, Al Khalil-Hebron, Gerusalemme Est, TulKarem, furono invase da carri armati e soldati israeliani. Se il 1948 era stato una Catastrofe (Nakba), il 1967 fu una Naksa (una ricaduta nella Catastrofe).
Il governo israeliano, già alla fine del luglio 1967, mise in atto un piano per l'insediamento della popolazione ebraica in quei territori occupati, prevedendo la costruzione di insediamenti coloniali permanenti, in particolare nella valle del Giordano, nelle colline a Sud di Hebron e nell'area che circonda la città di Gerusalemme. La Corte internazionale di giustizia ha confermato l'illegalità degli insediamenti israeliani, che violano l'art. 49.6 della quarta convenzione di Ginevra: «La potenza occupante non potrà mai procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della propria popolazione civile sul territorio da essa occupato».
Nonostante questo, dal 1967 ad oggi, la costruzione delle colonie illegali non si è mai arrestata.
Insinuandosi tra antichi villaggi, strade storiche fatte in pietra e ulivi millenari, questi agglomerati urbani dall'architettura moderna spaccano visivamente il territorio palestinese e sono il più grande ostacolo per la costituzione di uno Stato palestinese. Secondo i rapporti palestinesi, circa 770.000 coloni israeliani vivono in Cisgiordania, distribuiti tra 180 insediamenti e 256 avamposti – 138 classificati come agricoli o pastorali. Dal 7 ottobre 2023, il governo Netanyahu ha ulteriormente intensificato la costruzione delle colonie in Cisgiordania. Solo nel 2025 il governo ha investito 1,9 miliardi di dollari per le infrastrutture in Cisgiordania e approvato 24.338 nuove unità, più del doppio rispetto al 2024.
Di recente, il 20 agosto 2025, Israele ha approvato uno dei più grandi progetti di insediamento. Chiamato E1, dove "E" sta per "espansione", questo piano risale agli anni ‘90 e porta la firma dei governi laburisti di Yitzhak Rabin. Congelato nel 2012 e nel 2020 dopo le pressioni degli Stati Uniti e dei governi europei, questo progetto spaccherà in due la Cisgiordania. Prevede la costruzione di 3,400 unità abitative in un'area strategica, in una collina di 12km che attraversa la Cisgiordania centrale.
Queste colonie salderanno fisicamente l’insediamento di Maale Adumim con i quartieri di Gerusalemme Est interrompendo di fatto il collegamento diretto tra le città palestinesi del Nord (Ramallah–Nablus) e del Sud (Betlemme–Hebron). Non solo, in questo modo, i 370mila palestinesi residenti a Gerusalemme Est saranno definitivamente isolati dal resto dei territori occupati.
Durante una conferenza stampa, il 14 giugno 2025 il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich ha mostrato una mappa dell’area del progetto, dichiarando: «Lo Stato palestinese viene cancellato dal tavolo, non con slogan ma con azioni. Ogni insediamento, ogni quartiere, ogni casa è un chiodo nella bara di questa idea pericolosa».
Mentre i carri armati dell'Idf cancellano ciò che resta di Gaza City, anche la Cisgiordania viene spazzata via, frammentata ulteriormente, distrutta fisicamente. In questi due anni di genocidio il campo profughi di Jenin e quello di Tul Karem sono stati ripetutamente attaccati. Da gennaio 2023, 6.450 palestinesi sono stati sfollati dopo la demolizione delle loro case. Le terre palestinesi vengono rubate con semplici dichiarazioni. Come se le parole, da sole, potessero cancellare la memoria di una Terra.
Il 3 settembre, l’Amministrazione civile del ministero della Difesa israeliano ha dichiarato «terra statale» 456 dunam (45 ettari) di territorio adiacente all’avamposto illegale di Havat Gilad, nel Nord della Cisgiordania, per favorire lo sviluppo di insediamenti e infrastrutture. Il tempo di una dichiarazione e d'un tratto un terreno che faceva parte delle terre amministrative dei villaggi palestinesi vicini a Jit, Tell e Faràata sparisce dai sigilli delle proprietà palestinesi.
Al furto di terre, alla demolizione di case e alla costruzione di colonie si aggiunge la costruzione delle strade dell'apharteid che possono utilizzare solo i coloni. Dal 10 agosto 2025, le forze di occupazione israeliane hanno iniziato a pavimentare una strada coloniale a spese delle terre dei cittadini nella città di Hizma, a Nord-Est di Gerusalemme occupata. Un passo che fa seguito alla decisione israeliana del 25 giugno 2025 di sequestrare vaste aree di terreno che si estendono dalla strada principale che conduce alla città di Jaba fino all’area di Aqabat, oltre alle aree adiacenti. L’ufficio del governatore di Gerusalemme ha dichiarato che questo progetto mira a cambiare le caratteristiche della regione e a imporre nuovi fatti di giudaizzazione.
D’altronde, che il governo Netanyahu voglia imporre la propria sovranità sulla Cisgiordania non è più solo retorica, ma nell’agenda politica. In una riunione con ministri chiave Netanyahu ha discusso del piano di annessione. Le strade percorribili sono: annettere alcuni insediamenti alla sovranità sull’intera Area C, che copre circa il 60% della Cisgiordania oppure annettere la Valle del Giordano, considerata vitale per la sicurezza dei confini. Secondo Israele questa possibilità è la più difendibile sul piano internazionale. Tuttavia, Smotrich, Ben Gvir e la leadership dei coloni rifiutano soluzioni parziali e spingono per un’annessione integrale. Smotrich ha sintetizzato il piano con lo slogan: «Il massimo territorio, il minimo degli arabi«, dichiarando che «l’ampio consenso a favore della sovranità deriva dalla consapevolezza che non dobbiamo permettere che una minaccia esistenziale operi al nostro interno«. Sull’Anp ha affermato: «Se alza la testa, la distruggeremo come abbiamo fatto con Hamas».
Forse con queste dichiarazioni, oggi, appare evidente al mondo intero che il problema del sionismo non è l’esistenza di una singola fazione politica, ma l’esistenza stessa del palestinese o di un possibile Stato palestinese. L’accelerazione del processo di colonizzazione in Cisgiordania deriva anche dal timore che molti Paesi occidentali possano riconoscere lo Stato palestinese nella Assemblea generale dell’Onu come già annunciato da Francia, Regno Unito e Canada.
Nonostante un eventuale riconoscimento sarebbe indicativo del crescente isolamento internazionale di Israele, qualcosa in questo quadro è profondamente sbagliato. Ciò che dovrebbero fare oggi e con urgenza gli Stati è agire per sanzionare Israele, punirla per i suoi crimini di guerra e contro l’umanità e denunciare il regime di apharteid.
Solo in questo modo Israele potrà essere fermato. Di fronte ad un genocidio in corso e all’annessione di ampie terre in Cisgiordania, la soluzione a due Stati non può essere invocata come compromesso ragionevole. La questione centrale è smantellare un regime aggressivo, razzista e di apharteid. Anche perchè, vien da chiedere, quale sarebbe lo Stato palestinese che questi Paesi vogliono riconoscere? La Palestina oggi non è altro che un insieme di puntini disconnessi tra loro, un arcipelago in cui non esiste continuità territoriale e in cui ne esisterà sempre meno.
Ai palestinesi deve tornare ogni centimetro di terra rubata, le colonie devono essere smantellate, ai profughi deve essere garantito il diritto al ritorno. I diritti di un popolo non possono limitarsi a un riconoscimento che non porta con sè giustizia e dignità per il popolo stesso. In questo modo, il riconoscimento non è altro che uno scudo di protezione, un orpello giuridico che gli Stati utilizzano per dichiararsi innocenti rispetto alla complicità del genocidio su Gaza e rispetto alla colonizzazione della Cisgiordania. Ma, chiaramente, affermiamo: riconoscere uno stato palestinese che fondamentalmente non può esistere, non rende innocente nessuno.
La retorica di riconoscere uno Stato palestinese non è pane per i bambini che muoiono di fame a Gaza, non è protezione per i civili che Israele sta deportando oggi da Gaza City, non è dignità per i palestinesi brutalmente attaccati e picchiati, ogni giorno dai coloni a Masafer Yatta (Sud di Al Khalil/Hebron). Le misure per fermare quest’enorme macchina di ingiustizia esistono e se non si utilizzano è perché, semplicemente, non si vuole.

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