Seraj Ouda ha 20 anni. Dalla Striscia, racconta a L'Espresso come la vita dei palestinesi sia cambiata a partire dal 7 ottobre 2023: le torture dei militari israeliani, il rumore perenne dei bombardamenti, la fame che scava nei corpi. "La morte si è trasferita dai cieli alle file per la farina"

Camminare verso la morte - Diario da Gaza

A Gaza la fame non è solo una conseguenza della guerra. È una sua estensione, un suo strumento, una scelta deliberata. È una politica. E chi oggi cerca da mangiare rischia la vita più di chi resta sotto i bombardamenti. La mia famiglia non aveva più nulla. Quando mia sorella Farah, diabetica, è entrata in coma ipoglicemico per mancanza di zuccheri, ho capito che era finita. Il suo corpo, già debilitato, non reggeva più l’assenza di cibo. In casa non c’erano né farmaci né pane. Niente. E nessuno a cui chiedere.

 

Così ho deciso di partire. Sono l’unico figlio maschio. Nessun altro poteva farlo. Dovevo tentare. Sapevo che era rischioso. Ma tra morire di fame a casa o rischiare la vita per un sacco di farina fuori, che scelta avevo?

 

Sono partito a piedi verso Rafah, a più di venti chilometri da casa mia nel nord di Gaza. Lì la Gaza Humanitarian Foundation (GHF) distribuisce gli aiuti umanitari: sacchi di farina. Ho camminato tutto il giorno. Ho dormito sulla spiaggia, perché la distribuzione iniziava la mattina presto. Con me, decine di altri ragazzi. Non ci conoscevamo, ma avevamo la stessa missione: tornare vivi, con qualcosa da mangiare. Abbiamo acceso il fuoco e aspettato si facesse l’alba.

 

Durante la notte, ci siamo stretti gli uni agli altri. Faceva freddo. Nessuno parlava. Solo il rumore delle onde e dei droni sopra la testa. Di mattina ci siamo messi in fila. E poi, senza avvertimenti, hanno cominciato a sparare. Tutti quelli nella foto intorno al fuoco che avevo scattato la notte prima, sono stati colpiti. Alcuni sono morti sul colpo, altri sono rimasti a terra, feriti. Io avevo il corpo cosparso del sangue di altri, non so come sono uscito vivo. Ma a casa sono tornato senza cibo. Farah era ancora in coma. Mia madre ha pianto in silenzio. Nessuno ha detto nulla. Perché lo sappiamo tutti: domani potrebbe toccare a me non tornare. Questo non è un episodio isolato. È un modello. Un sistema. Una condanna collettiva

 

Da quando la Gaza Humanitarian Foundation (GHF) è diventata il principale veicolo di aiuti umanitari autorizzato da Israele e sostenuto dagli Stati Uniti, la morte si è trasferita dai cieli alle file per la farina. La GHF è stata istituita con l’obiettivo ufficiale di “fornire aiuti umanitari in modo sicuro e depoliticizzato”. In pratica, è una struttura alternativa all’UNRWA, accusata da Israele di essere compromessa con Hamas, e quindi delegittimata. Ma per raggiungere le distribuzioni di GHF non ci sono vie sicure, non ci sono corridoi umanitari, non ci sono criteri trasparenti per la distribuzione. Nessuna protezione per chi si mette in fila. Chi va a cercare cibo, rischia di morire.

 

Secondo il Ministero della Sanità di Gaza, almeno 397 persone sono state uccise e più di 3.000 ferite da fine maggio – solo per aver provato ad accedere agli aiuti. Solo ieri, a Khan Younis, almeno 70 persone sono state uccise aspettando il cibo, mentre l’altro ieri a Deir al-Balah, più di 40. In quasi tutti i casi, i colpi sono partiti da droni o torrette israeliane che sovrastano le zone di distribuzione. Le autorità israeliane parlano di “misure antiterrorismo”. Ma chi viene ucciso è disarmato. È affamato. È in fila per un pacco di farina. Il cibo è diventato uno strumento di controllo. Lo riceve solo chi accetta di entrare in liste controllate. Lo riceve chi riesce a sopravvivere alle pallottole. La Gaza Humanitarian Foundation, che doveva salvare vite, oggi divide e uccide. È un’operazione umanitaria senza umanità. Una distribuzione di aiuti in stile militare, imposta da potenze straniere, senza mediazione locale, senza sicurezza, senza dignità. Per questo la chiamano “farina insanguinata”.

 

Io ho camminato nella morte per cercare un po’ di vita. E non ho trovato niente. Solo i corpi stesi sulla sabbia. Solo la vergogna di chi sopravvive a mani vuote. E una sorella ancora in coma, a cui non so più cosa promettere. 

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