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23 settembre, 2025Pistole e fucili circolano liberamente in 38 Stati. Nel Paese i pezzi sono 393 milioni: 120 ogni 100 abitanti. E 46 mila vittime l’anno. La violenza prima causa di morte tra i minori
Sono settimane cupe in questa America smarrita, avvolta in una spirale che sembra non avere fine e che logora alle radici la democrazia. Il 10 settembre, nello stesso giorno in cui veniva assassinato in un campus dello Utah Charlie Kirk, in Colorado un ragazzo armato feriva due compagni prima di suicidarsi nella settima sparatoria scolastica dall’inizio dell’anno accademico.
Due scene lontane, certo, eppure unite dallo stesso filo. «In parte la violenza ha radici comuni, in parte caratteristiche proprie. Resta un denominatore: in una società sommersa dalle armi basta poco perché un’aggressione diventi un omicidio, o un gesto di autolesionismo si trasformi in morte certa». È il punto su cui insiste Peter Simi, sociologo alla Chapman University, con cui ragioniamo mentre la nazione si interroga sull’ennesimo delitto politico.
La morte dell’attivista conservatore, simbolo della destra trumpiana, per mano del ventiduenne Tyler Robinson, ha riportato in primissimo piano la grande questione dell’assuefazione degli americani alle armi. In Usa ci sono più pistole e fucili che persone: oltre 393 milioni, ovvero 120 “pezzi” ogni 100 abitanti. Un primato mondiale assecondato dalla politica in nome di un culto mistico del Secondo emendamento della Costituzione. Al momento in 38 Stati si può girare senza intoppi con pistola al fianco; in 29 non serve un permesso per portare in giro un’arma nascosta. A perdere la vita sull’altare della libertà sono quasi quarantaseimila americani ogni anno.
Simi, tra i più autorevoli studiosi di estremismo negli Stati Uniti, osserva che l’assassinio Kirk non è un episodio isolato, ma si colloca dentro una traiettoria più precisa: quella della violenza politica che da anni ferisce il Paese, con attacchi sempre più frequenti a figure pubbliche, istituzioni e simboli. Pochi mesi fa era toccato a Melissa Hortman, ex presidente democratica della camera statale del Minnesota, uccisa in casa insieme al marito. Nel pieno della campagna elettorale del 2024, poi, il presidente Trump era scampato per un soffio a un proiettile durante un comizio in Pennsylvania. Solo un paio di esempi, perché l’elenco continua.
«Gli indicatori parlano chiaro: non c’è motivo di aspettarsi un miglioramento sostanziale a breve. Non c’è una sola causa né una sola soluzione, ma serve una leadership nazionale diversa. L’attuale presidente ha mostrato un’incapacità costante, scegliendo sempre il minimo comune denominatore e facendo leva sugli istinti peggiori”.
Secondo Simi, non è sostenibile a lungo un livello di violenza così elevato, né si possono ignorare le minacce che nell’ultimo decennio sono aumentate di pari passo con gli attacchi reali. «Si registra poi un crollo di fiducia: nel sistema, nel Congresso, nei media e sempre più anche tra cittadini. È l’antitesi di ciò che serve a una democrazia vitale».
Ed effettivamente, la società americana sembra aver smesso di confidare nella capacità delle istituzioni di invertire la rotta. Negli anni, il vuoto legislativo è stato colmato da iniziative private e da sovvenzioni pubbliche che hanno moltiplicato misure e apparati di difesa, trasformando ad esempio le scuole in cittadelle sorvegliate. Un mercato che oggi, secondo Npr, vale fino a 4 miliardi di dollari. Un investimento consequenziale al dato più agghiacciante di questa America: la violenza armata è oggi la prima causa di morte tra i minori. Inoltre, dal massacro di Columbine del 1999, il Washington Post ha contato oltre 400 sparatorie nelle scuole.
La sicurezza è diventata un prodotto. «Le richieste aumentano dopo le tragedie, poi si affievoliscono dopo qualche settimana. Ma c’è comunque un incremento», spiega a L’Espresso Michael Kozhar, vicepresidente della International security services. «La città di New York, ad esempio, ha istituito un programma che rimborsa le scuole non pubbliche (come quelle private e religiose) per i costi sostenuti in sicurezza. Molti istituti ne approfittano. Noi non offriamo servizi armati, ma ci occupiamo di controllare gli accessi, di alta vigilanza, della valutazione dei rischi, di risposte antincendio e interveniamo in caso di sparatorie».
Kozhar sottolinea come oramai le scuole prendano le minacce sul serio, intensificando le esercitazioni per «farsi trovare pronti». Oltre ai metal detector, molti istituti hanno deciso di usare droni (in grado di “abbattersi” e stordire una persona armata), pulsanti antipanico, kit di pronto soccorso, tecnologie di riconoscimento facciale.
Se gli istituti di formazione, loro malgrado, hanno dovuto imparare ormai da tempo a proteggersi istituendo protocolli di sicurezza, il mondo corporate, che fino a ora non aveva attivato una risposta organica, si sta adeguando. «Le richieste hanno avuto un’impennata dopo l’uccisione a New York di Brian Thompson (amministratore delegato della compagnia di assicurazioni sanitaria UnitedHealthcare freddato da Luigi Mangione lo scorso dicembre)», conferma l’esperto. A spingere in questa direzione anche la sparatoria di luglio sempre a New York contro gli uffici della National football league, in cui sono morte cinque persone. Le aziende si sentono bersaglio e per questo investono per proteggere i propri manager ma anche per rafforzare gli uffici stessi, attraverso la presenza di unità cinofile e l’implementazione di stanze blindate.
Resta il paradosso: droni capaci di abbattere un uomo armato e algoritmi che riconoscono un volto sospetto, ma nessuna volontà politica in grado di affrontare il problema più semplice e insieme più complesso: ridurre la facilità con cui le armi circolano, arrivano a minori, fanatici e a persone con problemi di salute mentale.
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