Mondo
24 settembre, 2025Villaggi palestinesi rasi al suolo, attacchi armati e insediamenti illegali. Con l’aiuto dell’esercito. In Cisgiordania, la vita scorre al ritmo delle violenze e dell’occupazione
È un normale venerdì sera di settembre a Umm Al Khair, piccolo villaggio nella regione di Masafer Yatta, colline a sud di Hebron, nei territori occupati della Cisgiordania. Anni fa Umm Al Khair, nato nel 1948 dopo la prima Nakba, è stato tagliato a metà dalla strada che porta alla colonia di Carmel, fondata nel 1980, la cui alta recinzione si trova oggi a ridosso delle ultime case palestinesi. In corrispondenza della strada, sopra le case, passano i tralicci che portano l’elettricità ai coloni, a cui i palestinesi naturalmente non possono accedere.
Come ogni venerdì sera a partire dallo scorso agosto, all’imbrunire si apre il grande cancello dell’insediamento – illegale secondo il diritto internazionale – e ne escono decine di coloni armati, vestiti in abiti tradizionali. Dopo essere passati a piedi nel mezzo del villaggio palestinese, girano attorno al parco giochi dei bambini, anch’esso delimitato da una rete, e si posizionano a pochi metri di distanza, proprio accanto a un nuovo avamposto in costruzione – illegale anche secondo la legge israeliana – che rischia di cancellare per sempre Umm Al Khair. Una volta lì, uomini e donne si separano, nel mezzo una grande tenda appesa a due pali d’acciaio, e sotto un’alta bandiera di Israele, gli M16 ancora a tracolla, iniziano a pregare.
«Fanno così ogni settimana», spiega Yakob, attivista ebreo americano che si trova a Umm Al Khair per fornire una presenza protettiva alle famiglie palestinesi. «Questa è la preghiera del perdono», dice mentre ascolta uno dei canti dei coloni. A una decina di metri dal luogo della preghiera, il 28 luglio, il colono Yinon Levi ha ucciso l’attivista palestinese Awda Hathaleen sparandogli al petto. Nel cortile del centro per i bambini alcune pietre disposte a cerchio segnano il punto dove è morto Awda, a terra si vede ancora una macchia di sangue. Non solo per Levi non c’è stata alcuna conseguenza, ma da quel giorno le violenze contro la popolazione palestinese e le minacce all’esistenza del villaggio sono aumentate. «Una settimana dopo la morte di Awda, Levi era di nuovo qui, a lavorare in terra privata palestinese. Oggi dirige i lavori di costruzione dell’avamposto», racconta Tareq, il cugino di Hathaleen. Il 14 settembre i coloni sono tornati con un escavatore e hanno distrutto le tubature che portano acqua potabile alle centinaia di residenti del villaggio.
Il caso di Umm Al Khair è emblematico di quanto sta avvenendo in tutta la regione: «Da una settimana vediamo polizia ed esercito lavorare ogni giorno per tagliare l’acqua a un intero villaggio, togliere i tubi, scavare dove c’era l’acquedotto. Vediamo i palestinesi uscire a pascolare, raccogliere, fare formaggio, cucinare, vivere, mentre gli elicotteri atterrano a pochi metri da casa, i coloni bruciano auto, insultano, picchiano, uccidono», spiega Damiano Censi, coordinatore del progetto Mediterranea With Palestine di Mediterranea Saving Humans. L’associazione, oltre alla presenza protettiva sul campo, lavora alla stesura di un report per monitorare le violenze di coloni e forze di occupazione nella zona. L’attenzione internazionale si era brevemente concentrata su questi villaggi lo scorso inverno, dopo la vittoria agli Oscar di “No Other Land”. Questo però non ha fermato le violenze e il 13 settembre la casa di uno dei registi, Basel Adra, nel villaggio di At Tuwani, è stata oggetto di un raid dell’esercito dopo un attacco dei coloni in cui sono stati feriti tre palestinesi.
Nelle ultime settimane l’esercito israeliano ha installato due grandi cancelli all’ingresso di villaggi palestinesi, uno dei quali proprio ad At-Tuwani. Dal 7 ottobre ne sono stati costruiti più di 980 in tutta la Cisgiordania. Chiusi arbitrariamente e senza preavviso, impediscono ai residenti di entrare o uscire, limitando la libertà di movimento. Così la vita è sempre più regolata dai ritmi e dalle violenze dell’occupazione. Lo sa bene Sheik Saeed Al-Amour, abitante del villaggio di Ar Rakeez, colpito alla gamba da una pallottola sparata da un colono del vicino insediamento di Avigayil lo scorso 17 aprile. Al-Amour ha subito l’amputazione della gamba per le ferite. Da allora gli attacchi dei coloni contro di lui e la sua famiglia sono continui, «con il chiaro obbiettivo di cacciarci dalla nostra terra». Sheik Saeed si spinge con le stampelle nel suo giardino, superando in equilibrio le recinzioni di filo spinato. Mentre mostra i suoi giovani ulivi spiegandoci che quelli precedenti sono stati distrutti dall’occupazione, alle sue spalle passa un grosso camion betoniera diretto al vicino avamposto. Scuote la testa: «Loro costruiscono di continuo, mentre ogni volta che noi spostiamo due pietre vengono e le demoliscono».
Le demolizioni sono sempre più frequenti. Il risultato si vede a Khallet At Daba’a, su una collina a pochi chilometri di distanza da Ar Rakeez. Qui si ergeva un intero villaggio, dove viveva una comunità di centinaia di persone. A sei mesi di distanza dalle prime demolizioni, restano solo le macerie delle case, qualche letto all’aperto, una tenda. Gli abitanti hanno trovato rifugio nelle grotte e si rifiutano di andarsene. «La cosa più importante è la comunità, che reagisce come un solo corpo quando una delle sue parti viene attaccata» spiega Sami Hurreini, del movimento di resistenza nonviolento Youth Of Sumud. «Dopo le ultime demolizioni abbiamo istituito una presenza costante ad Ar Rakeez da tutta la regione per sostenere la popolazione, per non abbandonare la terra. All’inizio i coloni avevano occupato una parte del villaggio, ma siamo arrivati sempre più numerosi e alla fine se ne sono andati». Non è bastato. Il 4 settembre una trentina di coloni a volto coperto, armati di spray urticante, spranghe e coltelli, hanno attaccato i residenti mentre dormivano, causando decine di feriti, tra cui una bambina di tre mesi, accoltellata nel sonno, e una coppia di anziani. Almeno 13 persone sono state trasportate d’urgenza in ospedale. Quando gli viene chiesto dello stato dei feriti, Sami indica una macchia sul cruscotto della sua auto, «quello è il sangue di Abbas, l’ho dovuto portare in ospedale in macchina perché l’esercito impediva alle ambulanze di passare». Ad Ar Rakeez come ad At Tuwani e Khallet At Daba’a continua la lotta contro l’occupazione. Hafez Hurraini, storico leader della resistenza nonviolenta, ha l’aria stanca. Lo sguardo e la voce però sono fermi: «Sostenere le comunità più esposte alla violenza per noi significa rafforzare la prima linea del fronte». È un lavoro quotidiano, logorante, necessario: «Dobbiamo supportare la prima linea della Palestina e poi supportare la Palestina come prima linea dell’umanità».
LEGGI ANCHE
L'E COMMUNITY
Entra nella nostra community Whatsapp
L'edicola
Governati dall'Ia - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso
Il settimanale, da venerdì 26 settembre, è disponibile in edicola e in app