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25 settembre, 2025Con il Lugansk compone il Donbass, ma dopo tre anni e mezzo di guerra Kiev ne mantiene il 30 per cento. Allo zar serve tutto per potere rivendicare la vittoria
All’ingresso del Donetsk c’è un piccolo monumento dove si fermano tutti i soldati. Inizialmente era solo una stele con il nome della regione, oggi è un sacrario con decine di bandiere dei reggimenti al fronte, scritte, foto di caduti e una frase ripetuta: «Il Donbass è ucraino». Ma delle due regioni che lo compongono, Lugansk e Donetsk, dopo tre anni e mezzo di guerra a Kiev resta solo il 30% della seconda. I soldati russi hanno ricevuto l’ordine di avanzare a tutti i costi perché Vladimir Putin vuole poter annunciare al modo almeno questa vittoria, che nelle sue parole diventerà la «liberazione dei territori russofoni», al centro degli scontri fra i due Stati fin dal 2014. Ad Anchorage, in Alaska, Putin e Donald Trump hanno discusso di un’ipotesi alternativa: se l’Ucraina accettasse di cedere la parte restante del Donetsk, la guerra potrebbe finire immediatamente. Ma se il tycoon poteva ignorare il valore di ciò che stava per provare a imporre a Volodymyr Zelensky, non è così per Putin. I vertici russi sanno che per Kiev cedere il Donetsk senza combattere equivale non solo a dichiararsi sconfitti, ma a palesare che 11 anni di scontri armati e centinaia di migliaia di morti sono stati inutili. Zelensky rischia personalmente, i militari gli hanno già fatto capire in modo inequivocabile che non accetteranno alcun regalo al Cremlino, soprattutto nell’Est. La trattativa per ora è la guerra. Gli strumenti negoziali sono i missili russi e i droni ucraini e la firma che si aspetta è la sottomissione nemica per il Cremlino, l’arrivo degli alleati occidentali per Kiev.
La questione territoriale è il perno attorno al quale si costruiscono le trattative. Mosca e Washington su questo sono abbastanza allineate, laddove a Trump non interessa molto dei territori ucraini e preferirebbe che Zelensky li cedesse per potersi intestare la risoluzione del conflitto. Ma l’Ucraina e l’Unione europea non possono accettarlo. Per Bruxelles, anche se non se ne parla ancora apertamente, sarebbe una certificazione di fallimento. «Con l’Ucraina fino alla vittoria … per una pace giusta …il rispetto dell’inviolabile integrità territoriale ucraina», leit motiv dei politici del Vecchio Continente dal 24 febbraio 2022, si rivelerebbero solo chiacchiere a vuoto. Senza contare che gli ultimi incidenti ai confini polacchi e romeni hanno alzato il livello di guardia (e di paranoia) in alcuni degli stati orientali dell’Unione. La partita per i territori, dunque, non riguarda solo Mosca e Kiev, ma coinvolge anche gli altri poteri globali. Persino la Cina, che aspetta di capire cosa succederà in Ucraina prima di intervenire a Taiwan.
Allo stato attuale è logico, per usare un termine chiaro ai funzionari russi, che se la guerra si deciderà sul campo non vedremo la sua fine prima dell’ultima battaglia per il Donetsk. Ma qui sorge un problema fondamentale: ai ritmi attuali i soldati di Putin potrebbero impiegare mesi, forse addirittura anni per prendere Kramatorsk – ultimo baluardo ucraino designato nella regione – sempre ammesso che ci riescano. Il Cremlino questo lo sa bene e perciò la soluzione della cessione è stata presentata come la migliore. Si risparmierebbero così decine di migliaia di vite, si certificherebbe la sconfitta diplomatica dell’Occidente e si darebbe respiro all’economia russa che, nonostante una certa vulgata evidentemente di parte, non gode di buona salute. Le altre due regioni occupate, Zaporizhzhia e Kherson, in fondo sono meno importanti per Mosca, soprattutto se si considera che la parte che i russi già occupano ha permesso l’apertura di un corridoio che porta alla Crimea via terra, che la centrale atomica di Zaporizhzhia (la più grande d’Europa) è occupata, e che la presenza dei soldati della Federazione alla foce del Dnipro sarà sempre una spina nel fianco per Kiev. Tecnicamente, nell’autunno del 2022, queste due regioni sono state inserite nella costituzione russa insieme al Lugansk e al Donetsk nella loro estensione pre-bellica. Ciò vuol dire che per il Cremlino sono già territorio russo e, infatti, domenica 14 settembre si sono tenute le elezioni amministrative. Si tratta, ovviamente, di una mossa dal valore propagandistico più che diplomatico. Ma l’insistenza sugli stessi temi da oltre tre anni a questa parte sta iniziando a sortire qualche effetto. Frasi come «bisogna eliminare le cause profonde della guerra» sono ormai pronunciate anche da alcuni politici statunitensi.
I droni hanno cambiato completamente la guerra in Ucraina ma ciò che non è cambiato è il modo in cui i soldati russi avanzano. Lentamente, a costi altissimi in termini di vite umane, e senza riuscire a sfruttare la superiorità numerica e di equipaggiamento. Eppure ormai sono tutti convinti che il tempo sia dalla parte di Vladimir Putin e delle sue mire su ciò che resta del Donbass. Così come, è bene ricordarlo, tre anni fa la maggior parte dei commentatori era convinta che una guerra prolungata avrebbe distrutto il potere russo e affondato la sua economia. Non solo non è stato così, ma il gigante eurasiatico si è adattato, esibendo il sacrificio come virtù nazionale, poco importa se a Mosca chi parla di «prezzo da pagare per la grandezza della nazione» abbia sempre gli stessi privilegi. Ora si sta vincendo, almeno così dicono giornalisti in tv, blogger militari, commentatori alla radio, e non bisogna mollare. Ancora un po’ e l’Ucraina crollerà, anzi, l’Occidente si sfalderà perché «ora gli Usa sono tornati a voler fare affare con noi», come ha dichiarato il potentissimo Yuri Ushakov, consigliere per la politica estera del presidente. Quindi il Donbass non si lascia. Sarebbe anche difficile immaginare il contrario dato che, oltre ai vertici diplomatici dell’ultimo mese e agli onori tributatigli (tappeto rosso in Alaska e tribuna d’onore a Pechino), Putin al momento non ha un vero trofeo da esibire ai suoi. Pezzi di regioni dallo status incerto, asset russi congelati in Europa, commercio bloccato con l’Occidente (al netto delle triangolazioni con i Paesi compiacenti) in cambio di centinaia di migliaia di famiglie con il lutto in casa.
Il Donetsk serve a entrambi i presidenti. Anche se a Zelensky ne resta solo una parte, questo nome è diventato un simbolo talmente importante in Ucraina che chiunque non si faccia carico della sua difesa sarà considerato un traditore. C’è una piccola opportunità, però. Pochi giorni fa il Mazzarino di Kiev, il consigliere presidenziale Andriy Yermak, ha proposto a Zelensky una legge che permetta ai militari di ricoprire incarichi politici nel governo. Il capo ha dichiarato che «ci sta pensando», ma l’intento di Yermak è chiaro: dare agli ufficiali e alle figure più carismatiche incarichi di potere per imbrigliarli nel meccanismo della politica. In questo modo sarebbero loro a dover spiegare ai soldati che eventuali cessioni alla Russia erano inevitabili. Il potere le prova tutte per mantenersi saldo al suo posto, anche in Ucraina. Ma ciò che oggi sembra impraticabile, domani potrebbe essere reso possibile da un lessico diverso. Espressioni come «scambio di territori» che pure non hanno un reale fondamento (in quanto Mosca restituirebbe agli ucraini territori che erano già loro), potrebbero presto tornare in auge.
Nel frattempo i russi continuano a bombardare e a tentare di avanzare sul campo, nella speranza che lo sfondamento cercato da anni magari si verifichi ora. Gli ucraini continuano a rispondere, cercando il più possibile di mantenere le posizioni. In mezzo, i civili del Donetsk continuano a rifugiarsi negli scantinati. L’unica certezza è che la fine della guerra passa per questa regione, con il sangue o con la diplomazia.
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