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3 settembre, 2025I soprusi degli occupanti, da un lato. Gli abusi dei mariti di ritorno dal fronte, dall’altro. Le violenze di genere e sessuali sono l’emergenza nascosta dall’inizio delle ostilità
Kharkiv è la seconda città più popolosa dell’Ucraina. Grande quanto Torino, è quotidianamente colpita dai missili provenienti dal fronte russo nord-orientale distante meno di venti chilometri. Proprio qui, un gruppo di attiviste ha creato una rete di sostegno autonoma per affrontare un’emergenza nell’emergenza: la violenza di genere. In un Paese intrappolato in quella che sembra una guerra senza fine, garantire la sicurezza delle donne è sempre più difficile. Psicologhe e avvocate lavorano per intercettare e accompagnare le vittime di abusi commessi durante e dopo l’occupazione.
La prima volta che Natalya e Larissa si sono incontrate non è stato nella cella dove entrambe avevano trascorso più di un mese di prigionia nella città di Kupiansk, occupata dalle forze russe all’inizio di marzo 2022. È accaduto più tardi, fuori, quando, ormai al sicuro nella città di Kharkiv, sono state intercettate dalla rete di psicologhe e avvocate che offre supporto alle donne vittime di Gbv (gender-based violence, violenza di genere) e Crsv (conflict-related sexual violence, violenza sessuale legata al conflitto).
«Quando Yulia, una delle psicologhe, mi ha telefonato per la prima volta, mi ha detto che c’era una donna con una storia molto simile alla mia. È stato allora che ho conosciuto Natalya e scoperto che eravamo state nella stessa cella, solo in momenti diversi: io ero entrata poco dopo che lei era riuscita a uscire», racconta Larissa, 60 anni, insegnante di formazione.
Prima del 2022 era preside del liceo collegiale di Lesna Stinka, un piccolo villaggio nella regione di Kharkiv. Sebbene il distretto di Kupiansk, di cui Lesna Stinka fa parte, fosse caduto sotto occupazione già il 27 febbraio 2022, l’esercito russo non è arrivato fisicamente al villaggio prima dell’estate. «La nostra scuola seguiva il programma educativo ucraino», racconta. «Quando i russi sono arrivati, ci hanno chiesto di collaborare, di rimuovere ogni riferimento all’Ucraina, offrendo anche una ricompensa di 10mila rubli».
Larissa è stata l’unica dirigente scolastica della zona a rifiutarsi di riconoscere l’autorità occupante. Si è opposta per settimane, ricevendo pressioni e intimidazioni. Il giorno in cui sono venuti a prenderla, all’inizio di luglio 2022, hanno fatto irruzione nella sua casa e, dopo averla minacciata di morte, l’hanno portata via incappucciata.
Della prigionia Larissa conserva ricordi frammentati: momenti più nitidi si alternano a vuoti di memoria. Dopo essere stata spogliata e perquisita, è rimasta prigioniera per 45 giorni in condizioni disumane: dieci persone in una cella per due, temperature fino a 50 gradi, pestaggi, umiliazioni, interrogatori. Nella notte tra il 7 e l’8 settembre 2022 è riuscita a scappare, approfittando del caos seguito alla caduta di un razzo russo vicino alla prigione.
«Quando mi sono vista allo specchio per la prima volta non mi riconoscevo. Avevo perso 18 chili, i capelli erano diventati bianchi, non mi lavavo da settimane, le gambe e le braccia erano piene di lividi».
Natalya, oggi 61 anni, anche lei insegnante, quando l’esercito russo è arrivato nel suo villaggio dirigeva un istituto per ragazzi con disabilità. «Era un centro davvero all’avanguardia, con spazi interattivi per i ragazzi, pensati per ogni tipo di disabilità», racconta.
Con l’occupazione la scuola è diventata rifugio per decine di sfollati e punto di riferimento per chi, come lei, non voleva collaborare. «Mi dicevano che avrebbero trasformato l’istituto in una scuola russa. Quando chiedevo che tipo di didattica avrebbero applicato con i ragazzi disabili, rispondevano che non avrebbero cambiato il metodo russo».
Anche per lei l’arresto è arrivato all’improvviso. Prelevata da casa, è stata rinchiusa nella stessa cella senza aria, senza cibo sufficiente né possibilità di lavarsi, minacciata di violenza sessuale e sottoposta a interrogatori interminabili. La sua famiglia l’ha cercata per giorni, facendo pressione sulle autorità per liberarla e, dopo numerosi tentativi, Natalya è stata rilasciata. «Non avrei mai immaginato di rivedere mio figlio. Dopo la liberazione, per mesi non sono riuscita a dormire. Da allora soffro di forti dolori alle ossa e alle articolazioni».
Yulia Diomkina, psicologa originaria di Kharkiv, è stata la prima a raccogliere le testimonianze di Natalya e Larissa. Scappata in Germania con suo figlio dopo l’invasione, ha deciso di tornare nella sua città natale per aiutare le donne vittime di Gbv. «Con gli uomini al fronte, questa società la stanno tenendo in piedi le donne», dice. «Quando sono tornata, molte mi dicevano: “Mi sento invisibile”. Ho capito che senza un supporto strutturale sarebbero rimaste sole. È così che ho iniziato a occuparmi di Gbv e Crsv».
Nel suo lavoro Yulia ha incontrato Tanya Kozlenko, project manager che coordina la segnalazione dei casi di violenza di genere, e Katya Mannapova, psicoterapeuta del team. «Scherzo spesso dicendo che siamo le forze speciali dell’emotività», racconta Yulia. «Quando c’è un caso sappiamo dove indirizzarlo: disponiamo di numeri verdi, rifugi e facilitiamo l’accesso all’assistenza legale e sanitaria».
L’intervento inizia con la stabilizzazione, poi la terapia a lungo termine. Il lavoro non è solo psicologico: seguono le pratiche legali e la relazione con la polizia. Al percorso individuale si affiancano gruppi di supporto, art therapy e laboratori dove le donne possono incontrarsi e scambiarsi contatti, come Natalya e Larissa.
«La guerra è un concentrato di paura, povertà, senso di ingiustizia: fattori che alimentano la violenza. Per le donne questo problema ha due volti: da una parte l’aumento della violenza domestica, legato al ritorno dei soldati dal fronte; dall’altra, gli episodi di violenza sessuale e coercizione durante l’occupazione, che portano alle tre C: crisi della fiducia, crisi della persona e crisi del futuro. Insegniamo alle donne a comprendere cos’è accaduto e come tornare fautrici della loro vita».
Nel marzo 2025 un report di Unfpa (Voices from Ukraine) afferma che, a dispetto del calo della popolazione – da 41 a 31 milioni (Washington Post, febbraio 2025) – i casi di Gbv sono aumentati del 36 per cento tra il 2022 e il 2024. Oltre agli abusi e alle violenze sessuali nelle aree occupate, difficili da monitorare, i dati più solidi riguardano la violenza domestica: il 60 per cento degli episodi avviene in famiglie dove un soldato è di ritorno dal fronte o in congedo.
«All’inizio si raccontava un’immagine molto idealizzata del soldato, ora la realtà è molto diversa», spiega Nadya Cukhraieva, avvocata di Kharkiv che assiste donne vittime di violenza domestica tra Kharkiv e Kyiv e collabora attivamente con il team di Yulia. «Molti di questi uomini vivono in condizioni psicologiche precarie, abusano di alcol e diventano “specialisti della violenza” per sopravvivere al campo di battaglia».
Aggiunge come le donne che denunciano spesso sono sfollate interne, sole, economicamente dipendenti dal marito e prigioniere di relazioni abusanti, con anche la responsabilità dei figli in un contesto di guerra. «Il nostro compito è assicurarci che non siano sole nel momento in cui trovano il coraggio di denunciare».
Quanto sia efficace il percorso riabilitativo lo racconta Iryna, panettiera di 50 anni e vittima di stupro da parte di un soldato russo durante l’occupazione. Quando Katya, psicoterapeuta del team di Kharkiv, l’ha accolta nel suo studio, Iryna non ricordava nulla e si trovava in un grave stato depressivo.
«È servito tempo per riprendere confidenza con il corpo, tornare a dormire, mangiare correttamente, affrontare gli attacchi di panico e denunciare quanto accaduto», spiega Katya. «Abbiamo lavorato sullo stato psicologico e poi, attraverso la terapia di gruppo e incentivando i suoi interessi – per quanto possibile in questa situazione di guerra – abbiamo ricostruito il senso di sicurezza e l’autostima».
Oggi, mentre Iryna ricorda, la voce le trema. «Ci sono stati momenti in cui pensavo di non voler più vivere, in molti mi hanno colpevolizzata di aver provocato quello che è accaduto perché stavo aiutando altre persone ucraine. Grazie a questo percorso ho ritrovato un senso, sono tornata a dormire, ad abbracciare le persone. Ho scoperto che una delle cose che mi calma di più è il rumore dell’acqua. Quando questa guerra finirà vorrei acquistare una casa in campagna, magari vicino a un piccolo fiume o con una fontana in giardino e svegliarmi sapendo che siamo in pace».
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