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4 settembre, 2025Com’era e come è la quotidianità di una terra martoriata nei reportage della vincitrice del World Press Photo, impostasi anche contro i pregiudizi. Ora in esilio per salvare i suoi figli
Un bambino di nove anni avvolto da una luce obliqua, gli occhi persi nel vuoto, i moncherini delle braccia amputate che emergono dalla canottiera. La disperazione di una donna su una schiera di corpi avvolti in sudari bianchi, riconoscibili solo per i nomi scritti in arabo. Ma anche la gioia di una folla che gioca sulla spiaggia, saltando dentro e fuori dalle onde del mare. Nelle fotografie di Samar Abu Elouf c’è Gaza ieri e oggi, l’allegria della vita prima dell’attacco di Hamas, malgrado già allora si trattasse della “prigione a cielo aperto più grande al mondo”, e la distruzione materiale e morale provocata da quasi due anni di bombardamenti israeliani. Abu Elouf sarà a Palau l’8 settembre, al festival Isole che Parlano, per presentare la mostra di sue fotografie intitolata “Gaza, when emotions suffocate” (fino al 12 ottobre). È l’occasione per fare con la fotoreporter quarantunenne una chiacchierata a tutto campo: dalla sua reazione all’attacco del 7 ottobre alla vita in esilio in Qatar con i suoi quattro figli, dalla difficoltà dei primi passi come fotografa in una società profondamente patriarcale al valore collettivo dei premi che ha vinto fino a oggi.
Da anni lei lavora come fotoreporter a Gaza. I suoi scatti sono diventati famosi dopo la recente vittoria del premio World Press Photo, ma lei aveva già ricevuto diversi altri riconoscimenti. Cosa significa per lei vincere un premio?
«Significa prima di tutto che ci sarà un vasto pubblico che vedrà Gaza stessa, le storie di chi ci abita, ciò che sta accadendo lì. I premi sono importanti perché le notizie raggiungano sempre più persone. Come fotoreporter di Gaza, mi fa piacere che il mondo veda che da noi ci sono talenti, creativi: ci sono fotografi e tanti altri professionisti di cui nessuno sa molto. A livello personale, poi, come donna fotografa e come palestinese, mi fa piacere vedere di aver raggiunto un posto tra i fotografi internazionali: un posto in cui si valorizzano il mio lavoro, l’impegno e il messaggio che voglio trasmettere con le mie immagini».
Pochi giorni dopo l’annuncio del World Press Photo e la diffusione del suo ritratto di Mahmoud Ajjour, Trump ha mostrato per la prima volta empatia verso le sofferenze dei palestinesi. Si sapeva già che migliaia di bambini erano stati uccisi, ma molti hanno legato il cambio di rotta del presidente a quella foto e ad altre immagini di piccoli feriti o minacciati dagli attacchi israeliani. Lei pensa che la fotografia possa aiutare a migliorare il mondo?
«Come minimo, il fotogiornalismo permette al mondo di vedere la verità così com’è. Questo è ciò che sta accadendo oggi: raccontiamo storie attraverso le immagini, e il mondo osserva e apprende quello che succede attraverso le nostre fotografie e le nostre storie. E speriamo che documentare queste tragedie possa contribuire a realizzare qualche cambiamento sul campo».
Come fotoreporter, come ha reagito all’attacco del 7 ottobre?
«Ho fatto quello che faccio sempre, da quando faccio la fotografa. Ogni volta che a Gaza ci sono bombardamenti o lanci di razzi, io salgo su un edificio per fare fotografie da lì: è quello che ho fatto anche in quella occasione. Quando sono stata svegliata dal suono terrificante dei razzi, un rumore che non avevo mai sentito in vita mia, ho contattato i miei colleghi. Sono salita sul palazzo più alto che potevo raggiungere e da lì ho scattato foto dei razzi che venivano lanciati da Gaza, e le ho mandate alle agenzie».
Quali fotografie porterà alla mostra in Sardegna? Sul suo profilo Instagram ho visto immagini gioiose di “Gaza di ieri”: gite in spiaggia, feste, folla al mercato. Le metterà a confronto con le immagini di oggi?
«Non è un confronto, è la vita di Gaza attraverso fasi diverse. Le foto che saranno esposte in Sardegna mostrano Gaza prima e durante la guerra, e poi foto di persone colpite e ferite dai bombardamenti, riflettendo i segni che la guerra ha lasciato sui loro volti, i loro spiriti e non solo sui loro corpi. Sì, c’era vita a Gaza, nonostante l’assedio, e le mie foto di prima della guerra raccontano queste storie – persone che si divertono in spiaggia e che trovano ogni minimo pretesto per festeggiare, per trovare la felicità dentro una città assediata».
Ho letto che lei è autodidatta e che ha avuto difficoltà a iniziare la sua carriera a causa dell’opposizione di suo marito. Può dirci qualcosa su quel periodo?
«È vero, ho iniziato a fotografare per conto mio e l’inizio è stato molto difficile. Ho sfidato le tradizioni della società e della mia famiglia: non solo il mio ex marito, ma anche la mia stessa famiglia non accettavano l’idea che io fossi una fotografa, una donna circondata da maschi, dal momento che allora non c’erano altre fotografe oltre a me. Tuttavia, grazie alla mia determinazione e ai mei successi – i premi, le mostre – alla fine tutti sono arrivati a credere in me, anche la mia famiglia. Ho sempre insistito nel mostrare loro le mie foto e l’impatto che avevano, piuttosto che litigare o discutere per ottenere ciò che volevo. Alla fine sono state le immagini a convincerli a guardare positivamente al mio lavoro, ad apprezzarlo e a incoraggiarmi a continuare. E questo nonostante continuassero ad avere paura per me, per i pericoli che correvo lavorando come fotoreporter al confine di Gaza, in passato e ancora di più da quando è scoppiata la guerra».
Poi, lei che non ha mai studiato fotografia, è diventata un’insegnante: come ha affrontato questo compito?
«Sono molto contenta di essere un’insegnante. Mi piace moltissimo incontrare gli studenti e aggiungere qualcosa di nuovo alle loro vite, non solo insegnando fotografia ma anche condividendo le mie esperienze. Li incoraggio sempre a diventare ciò che vogliono e ciò che amano. Però, prima di diventare insegnante, ho seguito diversi corsi di formazione professionale, perché volevo davvero il titolo di “formatrice”: non volevo essere solo una relatrice che tiene una conferenza a un gruppo di studenti. Ciò che insegno è ciò che ho imparato e realizzato io stessa, partendo dalle basi elementari della fotografia per arrivare a come raccontare una storia attraverso la documentazione e la narrazione».
Le fotografie e i romanzi sulla Palestina rischiano di limitarsi a dare un’immagine tragica di una cultura che è, nonostante tutto, piena di ironia, affetto e gioia. Diversi artisti mi hanno parlato di questa difficoltà: lei come la affronta?
«Io cerco sempre di mostrare Gaza attraverso immagini piene di vita e di amore per la vita, perché questa è la verità. Anche nelle foto di guerra, nelle immagini di famiglie in fuga o che lottano per sopravvivere, la verità è che quelle persone stanno cercando di salvare le loro vite non perché hanno paura della morte, ma perché amano la vita. Questo è ciò che vedo anche nelle immagini di sfollamento forzato, anche nella forza con cui le persone si aggrappano alle loro case e alla loro terra».
Può dirci qualcosa sulla sua vita oggi, in Qatar,sia come fotografa che come persona che sta pagando con l’esilio la sicurezza rispetto a una guerra senza fine?
«È stata la decisione più difficile che abbia mai preso nella mia vita, e ho dovuto prenderla a scapito della mia vita e di ciò che amo. Il mio lavoro di fotoreporter era tutto per me: era la mia missione, il messaggio che dava un senso alla mia vita e che condividevo con il mondo. Ma ho scelto le vite dei miei figli, e ho messo da parte il mio amore per il lavoro. Sì, ho fatto questo sacrificio per poterli vedere al sicuro, e perché non rischiassero di venire uccisi solo perché io sono una fotoreporter. È una cosa profondamente dolorosa per me, mi spezza il cuore. Piango ancora oggi, ogni singolo giorno, per aver lasciato Gaza e i miei familiari che sono rimasti là. Ma continuo a pensare a quello che poteva succedere: qualcuno dei miei avrebbe potuto essere ucciso solo perché sono una fotoreporter, o avremmo potuto essere uccisi tutti assieme. In realtà vedevo i miei figli raramente, proprio perché temevo che potessero morire a causa mia. Avevo finito per vedermi come un bersaglio mobile, solo perché ero una giornalista: soprattutto dopo aver visto colleghi presi di mira e assassinati, a volte uccisi insieme alle loro famiglie. Per me non c’era una scelta che non fosse mortale, ma nulla mi uccide di più che essere stata separata da Gaza».
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