L'Italia è in recessione. Lo è "tecnicamente" secondo la convenzione per cui un paese raggiunge questo cattivo risultato quando realizza una crescita negativa per due trimestri consecutivi. Ma le cattive notizie non sono finite. Secondo la voce autorevole del governatore Ignazio Visco, infatti, quest'anno andrà anche peggio con una caduta del Pil stimata all'1,5 per cento.
Previsione, purtroppo, allineata (decimale in più o in meno) con quella dei principali osservatori internazionali. Simile prospettiva è davvero grama perché si innesta su una situazione economica e sociale già pesante con consumi e investimenti in frenata, mentre la disoccupazione soprattutto giovanile offre l'unico dato in aumento. Il tutto, come non bastasse, in un quadro di rallentamento generalizzato della nostra principale area di riferimento che è e rimane l'Europa.
Il governo Monti, che ha dovuto calcare la mano del fisco per fermare la corsa verso il baratro dei conti pubblici, si mostra ora impegnato a bilanciare l'effetto frenante dei suoi primi provvedimenti con riforme anticicliche sia del mercato del lavoro sia del regime tributario.
Quanto alle prime, posto che si riesca a mandarle in porto senza il contrappasso di dannose tensioni sindacali, non c'è comunque da aspettarsi che possano produrre effetti significativi se non nell'arco di qualche anno: è accaduto così anche in Germania dove forse si è innovato al meglio in materia. Frutti, viceversa, più immediati è lecito attendersi dal progetto di un taglio dal 23 al 20 per cento del prelievo sul primo scaglione dell'imposta sui redditi. Oltre che apprezzabile sul piano dell'equità sociale, tale misura potrà avere benefici esiti economici perché riguarda proprio quella gran massa di italiani a basso reddito che più degli altri si sono visti costretti a tagliare i loro consumi.
Ma basterà questa sperata ripresa della domanda ad attenuare gli effetti negativi della recessione? Probabilmente no, perché oggi gli investimenti latitano non solo a causa dei bassi consumi ma anche in forza del corto circuito che si è verificato fra banche e imprese sul mercato del credito. Tanto che perfino lo stesso supremo vigilante del sistema - ovvero sempre il governatore Visco - ha ritenuto di dover suonare la sveglia ai suoi vigilati richiamandoli a fare il loro mestiere di finanziatori dell'economia reale.
Un invito al quale i banchieri replicano che a calare è in realtà la domanda di finanziamenti da parte delle imprese, così sorvolando sul piccolo ma decisivo particolare che la richiesta di prestiti si appiattisce anche, se non soprattutto, a causa dei tassi d'interesse sempre più onerosi pretesi dai medesimi banchieri.
Maggiori siano le colpe degli uni o degli altri, fatto sta che il cavallo non beve. Avrà anche fatto bene, quindi, la Bce di Mario Draghi a mettere a disposizione delle banche una montagna di denaro a buon mercato per evitare il tracollo del sistema creditizio.
Ma se questi soldi si esauriscono principalmente in comodi acquisti di titoli pubblici - come sta accadendo - si potranno pure salvare gli Stati dalle minacce di default e però al prezzo di lasciar morire le economie ad essi sottostanti. Negli anni Trenta il normale circuito dei crediti agli investimenti fu rimesso in moto anche riformando a fondo la struttura del sistema bancario. Perché oggi no?