I boss sono impermeabili all’ambiente che li circonda. La moglie di uno di loro piazza il formaggio porta a porta nel grattacielo dove abitano in America. E un rampollo si laurea ad Harvard con una tesi sulle tecniche diincaprettamento

Le minacce di Totò Riina a don Luigi Ciotti destano grande allarme anche perché l’anziano padrino pronuncia i nomi in modo molto approssimativo, mettendo in pericolo un grande numero di persone dal cognome simile a quello della vittima indicata. «Non abbiamo uomini e risorse a sufficienza per proteggere tutti quelli che si chiamano Ciotta, Ciotto, Cetti, Cittu, Giotti eccetera», dicono desolati al ministero degli Interni citando solo alcune delle intercettazioni trascritte. Già in passato, quando Riina durante un processo minacciò Violante chiamandolo Fiolanto, il panico tra i quasi omonimi scosse la comunità nazionale. Ci sono poi autentici casi di scuola, come quello del commissario Ghesherwartz, di origine altoatesina, che poté trascorrere indenne molti anni a Corleone, arrestando centinaia di mafiosi, senza correre alcun rischio perché non esisteva un boss in grado di indicarne il cognome.

LA TRATTATIVA Secondo illazioni molto accreditate, la famosa trattativa Stato-Mafia fallì perché lo Stato non riusciva a capire le richieste degli interlocutori mafiosi. Frasi tipo «Se voi allicchiate, ’u frisu tiene i colpi di bandizzu», oppure «Dateci i pinquacchi e allora noi scanziamo la finusa» furono oggetto di accurati studi fonografici e linguistici, ma senza venirne a capo. Venne messo al lavoro un pool di filologi, logopedisti, interpreti, antropologi delle civiltà primitive, perfino alcuni medium. Dopo mesi di inutile lavoro consegnarono ai Servizi una relazione tuttora secretata, della quale si conosce solo il titolo: «Ma come cazzo parlano, con tutti i miliardi che guadagnano?».

LA POLEMICA Totò Riina è considerato il simbolo vivente dell’inefficienza del sistema carcerario italiano. I deputati radicali che gli hanno fatto visita sono sconvolti: «Dopo trent’anni è identico a come è entrato». L’impermeabilità dei boss di mafia o di camorra all’ambiente circostante, ai mutamenti sociali, storici, geografici è proverbiale: si racconta che il boss Firilizzi, della cosca di Smarittu, viva in un attico di Chicago con venticinque pecore e tutte le mattine costringa la moglie a vendere porta a porta il formaggio nei quarantadue piani del grattacielo. La donna è stata diffidata dall’uso dell’ascensore. Il capoclan Papace, nonostante sia pentito da molti anni e si sia ritirato in un monastero, porta il saio aperto sul petto per mostrare i suoi catenoni d’oro, scende in paese in scooter senza casco e ha costretto gli altri monaci a sostituire il canto gregoriano con i neomelodici napoletani. E la leggenda vuole che il camorrista Nené Catramone, boss del rione Ognissanti, tutti i sabato pomeriggio faccia la lampada abbronzante nella stessa beauty-farm nonostante sia morto in una sparatoria nel 1996.

I BENI SEQUESTRATI Altra pagina spinosa: malgrado gli sforzi di fantasia di operatori di ogni ordine e grado, non si trova il modo di utilizzare buona parte dei beni sequestrati ai boss. Dalla Jacuzzi con bolle ottenute col metodo champenois ai servizi di piatti ricavati da cidì di Mario Merola; dalla villa con i pavimenti Swarovsky al jet privato rivestito in pelle; dal bunker in mosaico ravennate agli harem dismessi (per esempio quindici ragazze estoni, una ex squadra di pallavolo completa di riserve e allenatore), perfino i miliardari russi si vergognano di un eventuale subentro. Le aste vanno deserte, o sono frequentate da pochissimi individui con il volto coperto che dicono di passare di lì per puro caso.

L’EVOLUZIONE L’evoluzione di cui si favoleggia da anni, dalla mafia rurale alla mafia che si laurea ad Harvard, è un processo ancora molto controverso. Pare che effettivamente Lino Mistronte, figlio dei Mistronte di Capo Panzuto, stia per laurearsi a Harvard, ma con una tesi sulle tecniche di incaprettamento che ha sollevato le perplessità del collegio docente.

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