Dopo la strage di 25 anni fa il regime ha mantenuto il potere. Ora rischia perché degrado ambientale e corruzione stanno esasperando la classe media
Ricorre quest’anno il venticinquesimo anniversario della soppressione del movimento democratico in Cina. Il 4 giugno 1989 l’Esercito di liberazione del popolo riprese Piazza Tienanmen, che era stata occupata quasi un mese prima da dimostranti pacifisti. Centinaia di civili persero la vita.
Il massacro di Piazza Tienanmen fu un punto di svolta nella storia cinese. Prima di quella tragedia, la Cina stava vivendo una fase di illuminazione politica. L’intellighenzia era impegnata in profonde autoriflessioni, cercava di comprendere perché il Paese fosse rimasto indietro rispetto all’Occidente. I riformisti all’interno del Partito Comunista, guidato dal Segretario generale liberale Zhao Ziyang, stavano varando alcune caute riforme politiche. Dal punto di vista economico, il Paese aveva appena vissuto un decennio di riforme. Anche se la crescita non fu spettacolare, l’economia risultò più bilanciata e il ruolo dello Stato ne uscì progressivamente ridimensionato. Certo, ineguaglianza e corruzione erano in aumento, ma il loro livello era di gran lunga inferiore a quello odierno.
Tutto ciò, naturalmente, dopo il massacro di Tienanmen cambiò. In seguito alla dura repressione, i liberali furono epurati dal partito. Gli attivisti filo-democratici furono rinchiusi in carcere o costretti all’esilio. L’unica buona notizia venne dal fronte economico: in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel dicembre 1991, i leader cinesi si preoccuparono a tal punto da concordare che l’unico modo di salvare il partito era abbracciare totalmente il capitalismo. Fu così varato un altro round di riforme e, nei due decenni seguenti, l’economia cinese visse una vera e propria espansione, contribuendo sia a salvare il regime sia a fare della Cina una superpotenza economica globale.
Oggi il regime sembra incrollabile. Rafforzato dal suo successo economico, ha costruito un potente apparato interno di sicurezza che ha represso con efficacia ogni dissenso e difeso il partito da qualsiasi minaccia al suo potere. La classe media cinese in forte espansione pare adeguarsi all’autocrazia, a patto che essa le assicuri prosperità. Il partito ha imparato a manipolare il nazionalismo cinese, raffigurando l’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, come entità determinate a ostacolare l’ascesa della Cina. Con crescita economica, repressione e nazionalismo a fargli da pilastri, il partito a prima vista parrebbe destinato a esercitare il potere esecutivo per un altro quarto di secolo.
Tuttavia, dietro la facciata della resilienza del regime incombono gravi minacce alla sua sopravvivenza a lungo termine. Con una popolazione in rapido invecchiamento, la crescita sta rallentando. Per di più, l’economia è intralciata da inefficienti e gigantesche aziende di proprietà statale, che monopolizzano alcuni settori cruciali come la finanza, l’energia, le telecomunicazioni, i trasporti e le risorse naturali. Una dilagante corruzione ha dato vita a una virulenta forma di capitalismo clientelare. I funzionari di governo, le loro famiglie, gli uomini d’affari che hanno gli agganci giusti hanno accumulato immense fortune che possono competere con quelle dei cleptocrati di qualsiasi altra regione del mondo. Una delle conseguenze del “capitalismo clientelare di tipo cinese” è una disuguaglianza estremamente grande. Stando a quanto risulta da una ricerca accademica indipendente, le sperequazioni di reddito in Cina oggi sono tra le dieci più alte al mondo.
Forse, però, la minaccia più fatale per il futuro della Cina è il suo degrado ambientale. Nell’ultimo quarto di secolo, il Paese ha dato sì vita a un “miracolo” economico, ma innegabilmente lo ha fatto a discapito del suo ambiente. Il suo fare affidamento sul carbone (la Cina oggi ne consuma quanto tutto il resto del mondo), il lassismo nell’applicazione delle leggi riguardanti l’ambiente, l’ossessione per la crescita a tutti i costi hanno reso l’aria irrespirabile e l’acqua nociva da bere. Il costo sociale ed economico del degrado ambientale cinese deve ancora manifestarsi in tutta la sua portata, anche se i segnali che lancia sono già adesso molto inquietanti. Senza provvedimenti tempestivi e radicali, la Cina quasi certamente negli anni a venire subirà gravi siccità, andrà incontro a perdite dei raccolti, e a un’impennata incredibile delle spese per l’assistenza sanitaria.
Questi mali socioeconomici stanno erodendo il supporto di cui gode il partito nella classe media cinese in forte espansione. Questa fascia di cittadini, stimati in 200-300 milioni di individui, si troverà a dover fare i conti con case dai prezzi inabbordabili, degrado ambientale, una mobilità sociale in caduta libera per i loro figli (dato che ottenere un buon posto di lavoro non dipende dal merito, ma dalle conoscenze), e una rete di sicurezza sociale a dir poco insufficiente. Far fronte alle aspirazioni di questo gruppo richiederà che le élite al governo rinuncino ai loro privilegi e intraprendano quanto prima vere riforme economiche e politiche.
Per il momento, niente lascia intendere che i leader cinesi saranno in grado di mettere a punto e varare vere riforme, malgrado le loro recenti promesse altisonanti. A giudicare dal recente operato del regime - come la campagna contro la corruzione dei funzionari e la dura repressione dei dissidenti - è chiaro che esso avverte le pressioni per il cambiamento, ma teme fortemente di perdere potere.
Significativamente, in questi giorni le massime autorità cinesi stanno mettendo in guardia di continuo il partito nei confronti dei pericoli ai quali va incontro. Citano la Rivoluzione francese e il crollo dell’Unione Sovietica, esempi di come un regime decadente può essere rovesciato dalla popolazione. Naturalmente, sono determinati a non seguire la sorte di Borboni e sovietici. In ogni caso, non c’è dubbio: il partito teme di non poter durare un altro quarto di secolo.