
Questo mantra delle riforme è ormai così forte e diffuso anche nel nostro paese, che appare difficile se non impossibile lottare contro. Ma da dove viene questo feticcio delle riforme? Da lontano. L’ondata nacque con la crisi da petrolio del 1973. Si trattò per la prima volta (dal dopoguerra) di uno shock da offerta che venne affrontato, erroneamente, attraverso politiche keynesiane che non funzionarono. La gran parte degli economisti sentenziò (giustamente allora) che erano necessari aggiustamenti sul lato dell’offerta più che sostegni alla domanda. Ma da allora le cose sono cambiate notevolmente. Non per il mondo dell’economia e della politica. Convinti dal 1973 che i problemi non erano congiunturali ma strutturali, gli economisti, i politici e, quindi, anche i cittadini, sono rimasti affezionati alla teoria delle riforme per far ripartire l’economia.
È così sono decenni che parliamo di riforme. Eppure di riforme in Italia ne abbiamo fatte anche di importanti (pensioni, mercato del lavoro, contrattazione salariale, enti locali, ecc.). Ma ogni nuovo governo che arriva (ne abbiamo avuti tantissimi) per legittimarsi afferma che finalmente riformerà il paese. Con il risultato che l’opinione pubblica resta convinta che non si sia fatto nulla. Né le statistiche aiutano a risolvere questo dilemma. Chi sostiene che siano necessarie le riforme cita il calo della produttività, la perdita di competitività a seguito dell’aumento del costo del lavoro per unità di prodotto, la crescita della disoccupazione giovanile e altro. Ma l’andamento di tutti questi indicatori è determinato dal crollo della produzione che, a sua volta, dipende dalla caduta della domanda interna, sicché resta il dubbio se servano riforme o sostegno alla domanda.
Qualcuno dirà: basta seguire il giudizio dei famosi “mercati”, fatti da investitori istituzionali che hanno come compito proprio quello di analizzare i Paesi e decidere dove rischiare i patrimoni da loro gestiti. Ma non è così. Gli investitori istituzionali seguono la corrente dell’opinione pubblica, leggono i giornali, parlano con gli stessi economisti, ascoltano qualche politico e decidono in modo che nessuno li possa accusare di aver assunto troppi rischi. Così facendo, fanno eco alle opinioni dominanti e amplificano i luoghi comuni.
Allora l’Italia dovrebbe rilanciare la sua domanda interna nonostante tutte le raccomandazioni interne e internazionali? Purtroppo no. Se ciò avvenisse con un maggior disavanzo pubblico, i capitali fuggirebbero dal nostro Paese e ci troveremmo presto a pagare salati tassi d’interesse sul debito pubblico e dovremmo fare immediata e rovinosa marcia indietro.
Bisogna fare buon viso a cattivo gioco e diventare riformisti seppure riluttanti. Si facciano queste riforme una volta per tutte, ma in maniera eclatante, per poi prendere anche la via del sostegno alla domanda. Per questo l’abolizione del famoso articolo 18 dello statuto dei lavoratori è un’ottima occasione. A detta di tutti riguarda solo un numero limitato di casi che possono essere risolti in altro modo. Ma la sua abolizione ha un forte valore simbolico grazie al tabù che ne hanno fatto i sindacati e la destra italiana. Tale abolizione può essere il simbolo di una vera riforma che ci farà passare dalla parte di quanti avranno già dato e si potrà così parlare di rilancio della domanda interna, a cominciare da un buon sistema di ammortizzatori sociali che difenda i troppi disoccupati e li indirizzi verso nuovi lavori.
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