Cinque casi su cinque. Chi è incaricato di tagliare la spesa pubblica, alla fine abbandona. Impresa impossibile? Sì, se la politica non ha coraggio

Spending review, ?ma non troppo sul serio

E cinque. Niente da fare, chi tocca la spending review muore. Politicamente, s’intende. Nel senso che scompare, lascia, abbandona l’impresa di riportare sotto controllo la spesa pubblica, o magari è costretto a rinunciarvi. E qui non si parla di sprovveduti piovuti giù dal cielo, ma di professori, illustri economisti, esperti del ramo abituati a navigare in acque tempestose. In principio fu Piero Giarda, restò in carica per un anno, poi nel 2012 Mario Monti gli affiancò Enrico Bondi. Uno è poco e due sono troppi? Comunque dopo un anno molla pure lui, che prima si era sciroppato, per dire, Montedison e Parmalat.

Si ricomincia, 2013, strada spianata per Mario Canzio, ex ragioniere generale dello Stato: dura dieci mesi appena; e allora si prova con un oriundo, Carlo Cottarelli, alto dirigente del Fondo monetario internazionale, non si scherza, questo ce la farà, no? Macché, dopo meno di un anno se ne torna a Washington. Così si arriva a Roberto Perotti, eccellente economista, che si divide il compito con Yoram Gutgeld, deputato Pd e consigliori economico del premier: ma oggi, solo sei mesi dopo la nomina, gira voce che abdichi anche lui. Così è, a un certo punto il tecnico si ferma in attesa di un sincero sostegno politico. Che spesso non arriva.

Che cosa ne dobbiamo dedurre, che tagli veri sono impossibili? La storia passata non spinge all’ottimismo, e nemmeno la cronaca odierna: la prima spending review, anche se sotto il nome meno trendy di Commissione tecnica per la spesa pubblica, porta la data del 1986; l’ultima, affidata al Rottamator dei rottamatori, aveva promesso 10 miliardi di tagli, ma ha faticato ad arrivare a cinque: dei 26,5 miliardi che costituiscono la manovra 2015, due terzi si devono infatti a maggiori margini di flessibilità che il governo si è preso nel tradizionale braccio di ferro con Bruxelles, insomma ad altro deficit.

È come se ogni volta ministri e presidenti si fossero detti: «Ne parliamo più in là…». Anche la riduzione dei tassi di interesse, e dunque il minor costo del debito, offerta dalla grande liquidità riversata nel sistema da Mario Draghi (quantitative easing), non è stata sfruttata. Avvenne qualcosa di simile con il passaggio dalla lira all’euro e l’abbattimento del costo del denaro che ne derivò: tra il 2002 e il 2009, cioè negli anni immediatamente successivi, la spesa pubblica aumentò del 39 per cento. Occasioni perse.

Ma, per capire come stanno le cose bisogna scendere un po’ più nel dettaglio. In realtà, negli ultimi anni molta spesa è stata tagliata, altra no. Per esempio si è dimezzata la spesa in conto capitale, cioè metà delle risorse destinate a opere pubbliche e infrastrutture, investimenti che però incidono molto sulla crescita dell’economia. Sotto controllo è anche la spesa al netto degli interessi sul debito (più 1 per cento, contro il 4 degli anni passati), e anche quella corrente che garantisce il funzionamento dei servizi pubblici. Allora, dov’è che invece si spende sempre di più? Per pensioni e sanità, naturalmente: invecchiamento della popolazione, automatismi e adeguamenti hanno pesato più delle riforme continue e dei relativi tagli.

Insomma, nonostante tutto, qualcosa si è fatto. Ma dov’era più facile, politicamente meno doloroso, e comunque non abbastanza, anche perché altri impegni incombono se si vuole evitare che da qui al 2018 scattino le cosiddette clausole di garanzia per 50 miliardi, insomma le multe sotto forma di aumento automatico di imposte previste da Bruxelles in caso di mancato rispetto dei parametri europei: di rinvio in rinvio, alla fine il conto si paga. E dunque, che fare? Tagliare ancora. Pensioni e sanità? Troppo facile, ma sconsigliabile. Devolvere servizi ai privati? Non offrono alcuna garanzia. Allora? L’unica strada sarebbe proprio quella di ricominciare dalla derelitta spending review, abbandonando però facili illusioni e falsi annunci. Qui più che un uomo solo occorrerebbe una squadra di tagliatori a ciascuno dei quali affidare una fetta della pubblica amministrazione da analizzare e ripulire, ghostbuster a caccia non di fantasmi ma di sprechi e costi da abbattere. Messi in condizione di lavorare e sottoposti a un’unica guida. Non tecnica, ma politica. Finora è mancata. Per scelta di comodo.

Twitter @bmanfellotto

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