Non bastano leggi più severe o l’Autorità ?di Cantone. Questo rimane il paese dell’impunità. Tocca alla politica fare pulizia al suo interno

È luogo comune o verità che l’Italia sia il paese più corrotto d’Europa? Insomma, ciò che continuiamo a vedere, da Roma mafiosa a Ischia mazzettara, passando per il Mose, l’Expo, e un Pd percorso da bande, è ordinario tasso di corruttela - che ci vuoi fa’, è la politica - o straordinaria quotidianità criminale? E qualora record fosse, perché? Prima di tutto, però, un paio di osservazioni. A dispetto delle statistiche, in Italia c’è ancora tanta stampa libera che pubblica ogni notizia che trova senza guardare in faccia a nessuno. Voi che leggete “l’Espresso” lo sapete bene. E così, se si smazzetta a Procida o a Venezia, si scrive, magari talvolta rinunciando a quella prudenza necessaria quando si fa informazione: ma davanti a certe notizie forse è meglio rischiare che tacere, no? Anche i magistrati fanno il loro mestiere e dispongono di uno strumento formidabile, le intercettazioni, capaci di svelare mondi inimmaginabili. Pure qui ci sono abusi, si sa, e grande è la responsabilità di pm e giornalisti nel distinguere il grano dal loglio senza calpestare i diritti di nessuno. E certo si può sbagliare, ma non è un caso che a ogni governo - e quello di Matteo Renzi non fa eccezione - corrisponda una riforma della giustizia che, immancabilmente, mette in discussione poteri dei magistrati e intercettazioni. Il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, le vorrebbe addirittura abolire. Come se nascondere i reati significasse cancellarli, un po’ come fanno i bambini quando si tappano gli occhi convinti che così nessuno li veda. Già, ma perché la corruzione è così diffusa? Perché la politica ha perso le motivazioni che la muovono, ha risposto Marcello Veneziani in una lettera al “Corriere della Sera”, quelle motivazioni politiche, civili e religiose che formano il sostrato di ogni civiltà. E con queste, ha aggiunto, si sono esaurite anche le spinte più personali, cioè l’ambizione di distinguersi e la voglia di veder riconosciuti i propri meriti. Infatti la corruzione dilaga lì dove non c’è meritocrazia. Osservazione condivisibile, ma allora bisogna chiedersi come si è arrivati a questa generale demotivazione politica e personale.

Intendiamoci, che la corruzione possa essere sconfitta è impensabile, essa è insita nella natura umana e da che mondo è mondo appartiene alla politica, perfino come strumento necessario a conseguire i propri obiettivi. Ma da noi non è più questo. Già trent’anni fa Rino Formica, socialista, lamentava che «il convento è povero, ma i frati sono ricchi»; oggi, addirittura, si comincia a fare politica solo per affermare il proprio personale potere e, appunto, arricchirsi.

Tra le tante cause del decadimento c’è, prima fra tutte, la mancata selezione della classe politica, viziata da liste elettorali bloccate - che riservano il potere di scelta a pochi ras - e da partiti squagliati, più che liquidi. E l’idea che la politica appartenga dunque a ristrette oligarchie autoreferenziali demotiva e allontana gli uomini di buona volontà. Devastante è stato poi il cattivo esempio di leader e dirigenti, anche di antica militanza, soliti camminare sul filo del rasoio, bravi a muoversi con arroganza in un’area grigia dove favoritismi e trattamenti di riguardo si mescolano a finanziamenti occulti, appalti pilotati, tangenti in natura. L’idea generalizzata che così fan tutti e che non ci sia altro modo per emergere, trovare un lavoro, avere successo ha prodotto incredibili fenomeni imitativi a tutti i livelli e cancellato quelle forme di controllo sociale con le quali ogni comunità pone un argine al degrado morale e civile.

E non basta. Se qualche passo avanti è stato fatto con l’approvazione della legge Severino, con l’istituzione di un’autorità anticorruzione (Raffaele Cantone) e il ripristino del falso in bilancio, questo ahimè è ancora il paese non della certezza della pena, ma dell’impunità: come riassume Piercamillo Davigo, una volta si minacciava «ti faccio causa», oggi la sfida è «fammi causa». Non c’è un giudice a Berlino. Facile che, con tali premesse, prevalgano cinismo e rassegnazione. E però non c’è altro modo per ridare credibilità alla politica e alle istituzioni che impegnarsi a fondo per arginare il fenomeno. Prima che siano i corrotti a rottamare gli innovatori.

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