Li ha invitati Franceschini. Per discutere di beni culturali. Un modo per conoscere l’altro. E favorire la distensione nel mondo globalizzato
7 agosto 2015
Erano ottantatré, sessanta ministri della cultura di tutti i Paesi del mondo e ventitré membri di delegazioni, convitati dal nostro ministro Franceschini all’Expo. In due giorni hanno visitato anche la fondazione Prada, si sono goduti una serata alla Scala, hanno ammirato il Cenacolo. Ma hanno anche discusso: ciascuno doveva parlare quattro minuti e (miracolo) tutti sono stati nei tempi, forse si erano allenati su Twitter.
C’era da chiedersi se oggi i problemi fondamentali di una società globale non siano il terrorismo, le guerre, l’economia, la fame, i mutamenti climatici. E allora perché riunirsi a discutere sui beni culturali? Non è forse vero che, come aveva affermato anni fa un nostro uomo politico italiano, «con la cultura non si mangia»?
A parte il fatto che i beni culturali costituiscono un prezioso incremento allo sviluppo economico di città come Parigi, New York, Berlino, nella riunione milanese si è parlato anche di terrorismo e si sono discusse possibili attività comuni per la tutela di patrimoni artistici minacciati dai fondamentalisti musulmani - e con particolare vigore da parte di ministri musulmani. Ma l’evento serviva a ricordare come l’incremento dei beni culturali sia oggi (più di ieri) fondamentale per la convivenza in un mondo in cui le diverse culture vivono in continuo contatto.
Il mondo è sempre stato attraversato da incomprensioni culturali: sino alla provocazione delle avanguardie a inizio del ventesimo secolo l’Europa giudicava barbara e incomprensibile l’arte africana, la gente comune in Europa giudicava deliranti e impudiche, quando gli capitava di vederne una foto, le sculture erotiche sui templi indiani, e i cristiani si scandalizzavano perché in certe religioni si rappresentavano divinità in forma di animale, dimenticando che l’occidente cristiano ha per secoli rappresentato lo Spirito Santo in forma di colomba.
Ora qualcosa è cambiato. E all’origine non vi è stata solo (e da più di un secolo) l’antropologia culturale che ha indotto gli occidentali a conoscere e capire le altre culture; è che da almeno mezzo secolo c’è stato l’incremento dei trasporti e pertanto il turismo di massa (persino quello coatto dei migranti). Torme di giapponesi visitano il Cenacolo leonardesco e torme di europei scoprono le Piramidi o i templi asiatici. Siamo di fronte a un viavai continuo di popoli che imparano a conoscere le bellezze prodotte da genti di cui sino ad allora non sapevano nulla.
È vero che il turismo contemporaneo costringe a vivere di solito in non-luoghi tutti uguali tra loro, e chi attraversa l’aeroporto di Singapore o scende in un hotel di Kuala Lumpur ha l’impressione di essere ancora alla Malpensa o in un hotel di Kansas City. Ma sovente i turisti escono dai non-luoghi e incontrano bellezze ignote e sorprendenti.
Certamente questi scambi di esperienze culturali non eliminano i fenomeni di razzismo, di xenofobia, di conflitto tra religioni e modelli politici. I gerarchi nazisti massacravano milioni di “diversi”, di cui conoscevano benissimo la cultura, ascoltando Beethoven. Molti terroristi che odiano l’occidente sono cresciuti nello stesso occidente vedendo ogni giorno Notre- Dame a Parigi o i grattacieli di New York, ma c’è da chiedersi se davvero abbiano avuto la possibilità di “guardare” queste cose, o se le abbiano viste solo dal profondo di loro ghetti.
Non dobbiamo fingerci “anime belle” e pensare che attraverso il contatto culturale si possano salvare i bambini che muoiono di fame in Africa. Però non dimentichiamo che è stato anche su sollecitazioni culturali che molti generosi volontari hanno capito la civiltà di tante popolazioni depresse e sono andati a prestare la loro opera presso coloro che hanno considerato, comprendendo una cultura differente, uguali a loro.
Ecco perché in un mondo dominato ancora da conflitti militari ed economici, anche la diffusione della cultura e la conoscenza reciproca dei beni culturali di ogni Paese, può avere una funzione positiva e costituire uno, anche se uno soltanto, degli elementi di distensione per un mondo sempre più globalizzato.