Commissariati, con potere in calo e finanziamenti sempre minori. Il declino delle figure che sono state simbolo del rinnovamento della politica

L'estate non ha portato gioie ai sindaci d’Italia. Che dopo le vacanze, hanno trovato più guai che soddisfazioni. Il catalogo è ricco. Rientrato a Roma, Ignazio Marino è stato accolto in piazza da una bordata di fischi, causa funerali Casamonica, e in ufficio dal commissario voluto dal governo per la gestione di un evento clou come il Giubileo, cioè il prefetto Franco Gabrielli, lo stesso che pochi giorni prima lo aveva svillaneggiato a dovere: «Se l’ho sentito? Sì, tra un’immersione e l’altra…».

Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, di commissari ne ha addirittura due, uno per il Porto e l’altro per Bagnoli, l’ex area industriale eternamente in sofferenza. Che è come avergli scippato le due realtà strategicamente più importanti della città. Un commissario in casa, e assai pesante, ce l’ha pure Giuliano Pisapia, ed è Giuseppe Sala, ad dell’Expo, scommessa italico-meneghina per eccellenza, che molti vedrebbero volentieri proprio sulla poltrona di sindaco di Milano. Del resto Pisapia, nonostante il pressing di fan e amici, pare non abbia alcuna intenzione di candidarsi per un secondo mandato. Solo qualche anno fa sarebbe stato impensabile.

Dobbiamo continuare? Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, deve fare i conti con l’ombra di Beppe Grillo, con il Pd, l’irrisolta crisi dei rifiuti e la pressione degli immigrati. Virginio Merola, primo cittadino di Bologna, accusato dalla Procura di abuso d’ufficio per non aver tagliato l’acqua a chi occupa case abusivamente, è sull’orlo di una crisi di sfiducia innescata dal partito che lo ha candidato, il Pd. Marco Doria, alle prese con l’ennesima alluvione, forse si chiede di nuovo, come già una volta, chi gliel’ha fatto fare di correre per sindaco di Genova.

Un declino generalizzato. Certificato pure dalla periodica hit parade del “Sole 24 Ore” che salva i sindaci dei piccoli centri e piazza in zona retrocessione quasi tutti coloro che nelle ultime tornate elettorali, candidandosi e vincendo nelle grandi città a dispetto delle candidature di apparato, avevano fatto sperare in una palingenesi della politica. Del resto, era successo vent’anni prima con il cosiddetto “partito dei sindaci” rappresentato da Francesco Rutelli, che poi per primo aveva osato il salto dal Campidoglio alla premiership, e anticipato giusto quarant’anni or sono, nel 1975, da una diversa generazione di politici, come Giulio Carlo Argan a Roma, o Maurizio Valenzi a Napoli, incoronati più dal voto popolare che dalla nomenklatura del Pci.

«Vent'anni fa i sindaci rappresentarono una risposta dal basso alla crisi dello Stato dei partiti, picconato da Tangentopoli. La prima elezione diretta della storia d’Italia fece da valvola di sfogo all’antipolitica e la trasformò in un conato di rinnovamento, di rifondazione della politica», ha ricordato Antonio Polito sul “Corriere della Sera”. Ma poi la speranza è presto svanita. Perché? E come si è passati dalla rivoluzione dei sindaci ai fischi? Certo, ha pesato il progressivo degrado della classe politica, non più selezionata dai partiti né allevata nelle istituzioni, e dunque facile preda del malaffare o, nel migliore dei casi, caratterizzata dal fiorire di ras di periferia dediti solo a garantirsi il loro personale potere.

Ma c'è dell'altro. Massimo Cacciari pensa a come sia andata svanendo ogni illusione federalista. Anzi come si sia messo in moto un processo diametralmente opposto, perfino favorito da quanto era successo: «È mancata la consapevolezza dei pericoli impliciti fin dall’inizio di quella “stagione dei sindaci”. L’irresistibile pulsione demagogico-plebiscitaria della politica italiana successiva nasce anche da lì».

E in effetti la personalizzazione della politica (Grillo, Renzi, perfino Salvini che si lascia alle spalle le valli della Padania per i talk show), il commissariamento delle periferie, l’abolizione delle province, il ridimensionamento delle Regioni punite dall’astensione degli elettori e trasformate nell’ultima ridotta dei nuovi vicerè (Emiliano, De Luca, Pittella), sembrano dare ragione a Cacciari. Cambiano gli equilibri, a tutto svantaggio dei poteri locali. Con un’arma nuova per combatterli, che non è quella di contrastarli politicamente o di arginare la valanga degli impresentabili. Ma di metterli sotto tutela e di levare loro trasferimenti, risorse, tasse. Prendendoli per fame.

Twitter @bmanfellotto

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