Il Paese è diventato l’incubo dell’Occidente. ?Che però non vuole mandare truppe. Perché invadere uno Stato significa poi doversene occupare...
Cinquemila combattenti sono pochi. Una manifestazione con cinquemila persone passa inosservata, ma i cinquemila uomini del ramo libico dello Stato islamico sono un’ossessione per i governi e gli stati maggiori occidentali, tunisini, egiziani e algerini.
La prima ragione è che il loro numero è più che raddoppiato in pochi mesi e potrebbe rapidamente quintuplicare. «Andate su un sito di prenotazione aerea e capirete», suggerisce un militare europeo e, in effetti, se si digita “Djerba”, paradiso insulare della talassoterapia all’estremo sud della Tunisia, tutto appare più chiaro. Djerba è a due minuti dall’Europa. Non c’è niente di più facile che raggiungere poi da lì la costa libica. Il percorso è infinitamente meno lungo, costoso e pericoloso di quello che conduce in Siria e, domani, la Libia potrebbe diventare la principale destinazione dei giovani europei reclutati dall’Is.
La seconda ragione dell’inquietudine dei governanti occidentali e regionali deriva dal fatto che l’organizzazione jihadista ha ora tutto l’interesse a indirizzare le sue reclute verso la Libia perché il rafforzamento delle frontiere turche ha complicato l’accesso al fronte siriano mentre in territorio libico si può penetrare senza incontrare il minimo ostacolo.
Senza una vera polizia nazionale sul terreno, né alcuna coalizione internazionale che controlli il suo spazio aereo, la Libia è un sogno per i jihadisti perché ha due governi rivali, vale a dire nessuno. C’è quello di Tripoli, dominato dai Fratelli Musulmani, e quello di Tobruk, più pluralista e moderato.
La Libia non è più uno Stato, ma un Paese in preda all’anarchia grazie alla quale, ed è questa la terza ragione d’inquietudine, l’Is ha già assunto il controllo della regione costiera di Sirte, dove i suoi uomini esportano petrolio sul mercato nero e avanzano verso il Sahel, a sud, e il confine con la Tunisia, a est.
Per i jihadisti, Sirte è un santuario dove ben presto potrebbero essere addestrati kamikaze da lanciare sul territorio europeo. È da questa roccaforte che è già stato organizzato un attacco contro la Tunisia. Ed è qui che ne vengono preparati altri contro l’Africa nera dove si stanno moltiplicando gli assalti. E sempre da qui potrebbero essere sferrati attacchi contro l’Algeria quando si aprirà l’incerta successione del suo vecchio presidente, Abdelaziz Bouteflika.
Sirte e i suoi manipoli di jihadisti in campo libero rappresentano una minaccia talmente preoccupante da indurre i servizi segreti occidentali ed egiziani ad infiltrare dei commandos in missione di ricognizione. Gli stati maggiori predispongono - in caso di emergenza - piani di intervento che vengono perfezionati di giorno in giorno. La Libia è oggetto di consultazione permanente tra i ministri degli Affari esteri europei e americani che ne hanno discusso anche domenica scorsa a Parigi, ma questo non significa che uno sbarco sia imminente. Nessuno vuole arrivare a questo, poiché l’esperienza dell’Iraq e dell’Afghanistan ha insegnato a diffidare dell’ingerenza, che sia fondata o meno, giustificata oppure no. Gli occidentali, e gli Stati Uniti per primi, hanno capito oggi che, quando i Paesi ricchi intervengono in un Paese povero, vengono ben presto ritenuti responsabili di tutto quel che vi succede o non vi succede, della miseria che persiste e dei problemi che non trovano soluzioni.
Intervenire in un paese, significa assumersene la responsabilità e gli occidentali non hanno né la voglia né i mezzi per procedere alla ricostruzione e all’unificazione di un Paese immenso come la Libia dove tutto è da rifare, nel campo economico come in quello politico. Vi metteranno piede solo se non hanno davvero altra scelta. Barack Obama l’ha appena fatto capire accusando pubblicamente David Cameron e Nicolas Sarkozy di aver creduto che la missione fosse stata compiuta il giorno in cui Gheddafi è stato ucciso, nel mese di ottobre del 2011.
Per il momento, americani ed europei puntano dunque tutto sulle Nazioni Unite il cui inviato, il tedesco Martin Kobler, sta tentando di riconciliare i due governi libici per dar vita a un unico governo su cui l’Occidente potrebbe fare quindi affidamento. Il processo è in corso. Passi avanti se ne stanno facendo, ma nulla ancora è stato ottenuto.