Renzi paga i sentimenti anti-establishment. ?E il disagio sociale che li crea. Ora non ha bisogno ?di più velocità. Ma, al contrario, di più riflessione
Il vuoto in politica non è ammesso. Il Movimento 5 Stelle ha occupato il deserto di valori lasciato alle proprie spalle dalle forze che hanno dominato la scena nazionale nell’ultimo ventennio. Se il minimalismo delle idee praticato da Valeria Raggi e Chiara Appendino nel corso della loro campagna elettorale è apparso come punto di debolezza agli occhi di due politici di lungo corso quali erano Roberto Giachetti e Piero Fassino, è perché hanno sottovalutato il richiamo alla partecipazione dei cittadini continuamente sollecitato dalle due vincitrici dei ballottaggi di Roma e Torino. “Libertà è partecipazione”, cantava Giorgio Gaber nei lontani anni Settanta.
nella società parcellizzata, dominata dai mercati globali e dalla finanza internazionale - i nuovi poteri esoterici distanti anni luce dai bisogni della gente comune - persino poter partecipare alla campagna per la segnalazione delle buche stradali da riparare con urgenza, appare come un atto di inattesa democrazia. Così gli esclusi dai processi decisionali, la maggioranza di chi vive nelle grandi città, si sono presi la rivincita. Con il voto, rivendicando un diritto di rappresentanza estinto con la scomparsa dei partiti di massa così come li abbiamo conosciuti nel recente passato. «Intendo occuparmi dello sviluppo delle applicazioni di democrazia diretta in Rete affinché tutti i cittadini possano fare politica», ha detto al “Corriere della Sera” Davide Casaleggio, erede del guru Gianroberto e padrone della piattaforma operativa del Movimento. La rivendicazione della democrazia diretta ricorda il mito della “stanza dei bottoni” evocato più di mezzo secolo fa da Pietro Nenni: è il luogo magico dove pigi un pulsante e risolvi un problema che assilla una comunità. Nenni, artefice di una stagione di importanti riforme popolari, confessò di non aver mai trovato quella stanza…
recuperare la memoria storica, tuttavia, è esercizio sterile di fronte al nuovismo incalzante. Lo stesso Pd ha smarrito le radici di una cultura segnata da errori passati, senza aver avuto la capacità di elaborarne una adeguata alla società post-industriale. Il riformismo, nella declinazione renziana, si è trasformato nell’inseguimento di una riforma quale che sia, a prescindere dalla qualità dei contenuti e dagli effetti prodotti. La riforma della Costituzione, tappa fondamentale del primo biennio di governo Renzi, è il concentrato di questa contraddizione tra pensiero debole e azione muscolare. Oggi più che mai appare come un azzardo arrogante l’aver voluto trasformare il referendum consultivo di ottobre in un plebiscito sulla persona del premier. Un prendere o lasciare giocato sulla sottintesa minaccia: dopo di me, il diluvio. Ebbene, un diluvio di voti per i 5 Stelle è tracimato dalle urne di Roma, Torino e degli altri 17 Comuni conquistati dai grillini nello scontro diretto con il Pd. Nella sua prima analisi del voto, il premier-segretario ha sintetizzato in “voglia di cambiamento” i motivi della sconfitta elettorale. Pronto ad accelerare il suo fantasioso cronoprogramma di governo. Forse, invece, farebbe bene a soffermarsi a riflettere sugli errori commessi. A partire dal modo in cui ha affrontato nello scorso inverno la crisi delle banche locali: è sembrato più dalla parte delle consorterie che hanno spolpato quegli istituti di credito anziché in difesa dei risparmiatori ingannati. Con l’aggravante dell’ombra del familismo sul più influente tra i suoi ministri, la Boschi.
L’altro grave errore è strutturale. In due anni e più di permanenza a Palazzo Chigi Renzi non è riuscito a rimettere in moto l’economia reale del Paese. Il populismo riformista, come sin dall’inizio su questo giornale ho definito il suo modo di intendere l’azione di governo, si è impantanato nei vincoli di bilancio, nelle compatibilità europee, nelle continue mediazioni dentro e fuori del Parlamento. Così l’uomo del nuovo ha smarrito il blocco sociale di riferimento: gli esclusi, il ceto medio proletarizzato, gli abitanti delle periferie metropolitane, i giovani con l’ansia del presente. Si è trasformato rapidamente in leader di sistema mentre la rabbia antisistema montava intorno a lui. Con il voto di giugno ha sperimentato quanto sia facile creare un corto circuito tra la velocità con cui si rivendica il cambiamento e i tempi lunghi necessari per districare la complessità di una società contemporanea. Un insegnamento per chiunque crede che entrando nella mitica “stanza dei bottoni” si possa illuminare l’avvenire con raggi di sole.
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