Il 2 giugno 1946 vinse la Repubblica. Da lì  ha origine la Carta. Che molti hanno cercato  di riformare. Senza riuscirci. Ecco perché

Settant’anni, come Cher. Lei però la conoscono tutti, invece la Repubblica è una perfetta sconosciuta. Furono gli italiani (e le italiane) a generarla, il 2 giugno 1946. E la creatura generò a sua volta un’Assemblea costituente, che dopo un anno e mezzo (18 mesi, doppia gravidanza) generò una Costituzione tutta nuova. Dunque il compleanno della Repubblica è anche un po’ l’anniversario della Carta repubblicana. Ignorata anch’essa, o al limite immaginata come un ufo, che nessuno sa come sia fatto. O almeno non lo sapevamo fino a ieri. Da oggi, siamo un popolo di costituzionalisti.

Merito del referendum prossimo venturo, che ha già oscurato ogni altro accidente della nostra vita pubblica. E dopotutto questa chiacchiera collettiva sulla Costituzione, i comitati del no, i comitati del sì (manca al momento l’indirizzo del comitato del nì), e poi i tifosi, gli apostoli, i profeti del vecchio o del nuovo, insomma tutta questa giostra potrebbe infine procurarci una maggiore confidenza con le nostre istituzioni, con la Carta che ne disegna il profilo. Non accadrà, probabilmente: in Italia siamo talmente abituati a litigare, da dimenticarci la ragione stessa del litigio. Eppure in questo caso l’oggetto del contendere è in realtà un soggetto, e il soggetto mostra le sembianze d’una vecchia signora, con qualche ruga in viso ma con il suo fascino intatto. E la signora ha molte storie da raccontare ai propri nipotini. Proviamo ad ascoltarla.

Venne al mondo il 1° gennaio del 1948, e da allora ha attraversato tutte le stagioni della vita. Ma la prima stagione fu l’inverno: un inverno rigido, nevoso, spazzato dalla tramontana. Successe quando la promessa di libertà, e di liberazione, racchiusa in quegli smilzi articoletti fu subito tradita dalla Democrazia cristiana, che nel frattempo aveva conquistato le chiavi del governo. Quando la riforma agraria – anticipata dai decreti Gullo del 1944 e poi solennemente iscritta nella Costituzione – rimase lettera morta; allora i contadini calabresi reagirono impossessandosi delle terre abbandonate, il ministro dell’Interno (Mario Scelba) reagì a sua volta spedendo i celerini armati di mitraglia: la strage di Melissa. Successe con i «reparti-confino» per i sindacalisti nelle fabbriche Fiat, con la persecuzione sistematica degli evangelici, con la censura sul cinema e sul teatro, con la scomunica del Santo Uffizio (nel 1952) su tutti i libri di Moravia, mentre Andreotti accusava l’Umberto D girato da De Sica di fomentare sentimenti negativi.

Al contempo i comunisti venivano cacciati dalle forze di polizia, poi da tutte le altre strutture pubbliche. Le riforme annunciate dai costituenti (la sanità, la scuola, l’amministrazione) rimanevano allo stato di progetti. Fra i nuovi organi previsti dalla Costituzione, l’unico a ricevere attuazione era il Consiglio supremo di difesa, nel 1950. Sulle regioni s’abbatteva l’ostilità manifesta del governo, perché la loro istituzione avrebbe schiuso varchi di potere al Pci, soprattutto nell’Italia centrale. E infatti fu proprio Scelba ad affermare che la Costituzione rappresentava una «trappola» per la Democrazia cristiana.

Ma dopo l’inverno è sempre primavera. Cominciò nell’aprile del 1955, quando venne eletto Gronchi. Nel suo discorso d’insediamento davanti alle Camere riunite, il nostro terzo presidente puntò l’indice sulle troppe norme costituzionali ancora inevase: Viva vox Constitutionis, lo definì Calamandrei. Così, nel 1956 la Consulta tenne la sua prima udienza; nel 1957 venne istituito il Cnel, sia pure con una maschera deforme rispetto al figurino progettato dall’Assemblea costituente; nel 1958 toccò al Consiglio superiore della magistratura, strumento per l’indipendenza del potere giudiziario. Nel frattempo si respirava un altro clima, favorito dai governi di centro-sinistra che dal 1963 in avanti s’alternarono alla guida del Paese. E quei governi battezzarono una serie di riforme: la scuola media unificata, che innalzò a 14 anni l’obbligo scolastico, come chiedeva l’articolo 34 della Costituzione; la nazionalizzazione delle industrie elettriche (articolo 43); la legge sulla «giusta causa» per i licenziamenti (articolo 35); la programmazione economica (articolo 41).

Sicché giunse l’estate, durante i nostri anni Settanta: la stagione della più piena attuazione della Carta. Non solo perché una legge del 1970 istituì finalmente le regioni, raccogliendo «l’innovazione più profonda» introdotta dai padri fondatori, per usare le parole di Meuccio Ruini. Non soltanto perché sempre nel 1970 – e sempre con 22 anni di ritardo – un’altra legge diede corpo al referendum, la «seconda scheda», la seconda gamba della democrazia. Il referendum (quello del 2 giugno 1946) coincide con l’atto fondativo della Repubblica, ma gli italiani, fin lì, ne erano stati espropriati.

Sennonché quell’estate fu la stagione dei diritti, delle libertà civili. Nell’arco d’un decennio s’alternano lo statuto dei lavoratori, la legge sul divorzio, il nuovo diritto di famiglia, la riforma penitenziaria, quella fiscale, quella sanitaria da cui nacquero le Usl, la riforma della Rai (che la sottrasse al controllo del governo), la depenalizzazione dell’aborto, infine l’equo canone, le norme sulla parità di trattamento fra uomini e donne nel lavoro, la legge Basaglia che chiuse i manicomi.

Fu come una fiammata, ma dopo ogni fuoco resta cenere. E dagli anni Ottanta in poi una cenere grigiastra si è depositata sul nostro ordinamento, sull’ordine stesso delle nostre relazioni. La società si è incanaglita, la cultura dei diritti è stata oscurata dal trionfo degli egoismi collettivi. S’è aperta una crisi di legalità, un’infinita Tangentopoli. Il trasformismo ha preso in ostaggio le nostre istituzioni, rendendo i governi ancora più precari, nonostante le promesse di stabilità della seconda Repubblica. E la Costituzione, con il suo cattivo rendimento, è diventata un bersaglio, la causa di tutte le sciagure.

Da qui l’autunno, una stagione che ormai dura da trent’anni, scandita da tentativi di riforma più numerosi dei cognomi che sfilano in un elenco telefonico. Il primo a dar fuoco alle polveri fu Bettino Craxi, con un articolo sulla «Grande Riforma» pubblicato dall’Avanti! il 25 settembre 1979. Anche se lo stesso Craxi, nell’intervista rilasciata a Eugenio Scalfari il 18 dicembre 1987, ammise che la riforma non sarebbe necessaria se la Costituzione fosse attuata, ma che attuarla era impossibile, per l’opposizione di partiti e partitini, per la loro paura di perdere il bastone del comando. Forse è sempre questa la ragione che fin qui ha fatto naufragare leggi di riforma e Bicamerali di controriforma. Col risultato di tenerci in tasca una Costituzione che non sappiamo attuare, però non sappiamo nemmeno riformare.

E allora eccoci qui, davanti all’ultima curva del circuito. Nessuno di noi può prevedere se al referendum d’ottobre subentrerà l’inverno oppure un’altra estate. Ma prepariamoci comunque a un cambio di stagione.

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