Lo speechwriter di Emmanuel Macron, insomma chi gli scrive i discorsi, si chiama Quentin Lafay, ha studiato alla Normale di Parigi, frequentato Sciences Po, e ha 27 anni. Quanti ne aveva Jon Favreau, miglior diplomato del suo corso, quando fu assoldato da Barack Obama per la campagna presidenziale (coniò per lui il motto vincente “Yes we can”). E tutti sotto i quarant’anni, non ancora inquinati dalla politique politicienne e ottimi studi - Ena, Harvard e Mit -, sono gli eletti dello staff presidenziale. Del resto, quando nel 2012 François Hollande conquistò la République, volle accanto a sé come vice segretario generale dell’Eliseo il trentaquattrenne Macron… Se il buongiorno si vede dal mattino, stesso criterio potrebbe essere adottato - elezioni legislative di giugno permettendo - anche per la formazione della squadra di governo e per le principali poltrone dell’apparato statale.
A Roma, invece, l’ultima nomina fresca fresca è quella di Tiziano Treu, un politico navigato, già senatore, pluriministro e commissario dell’Inps, 78 anni ad agosto. Ora, per carità, Treu è persona degna, di grande valore, dagli studi e dal curriculum ineccepibili; e il Cnel che gli è stato affidato è ente giudicato a più riprese vago se non superfluo, tenacemente sopravvissuto a riforme e referendum: se ne potrebbe dedurre che non sono in vista rivoluzioni, e dunque l’uno vale l’altro. Eppure non è così, questa designazione lancia messaggi negativi di cui la politica non aveva bisogno: dice che ogni riforma è impossibile; che per entrare nel Palazzo si devono imboccare strade contorte; e che per approdare a incarichi pubblici bisogna avere una certa età e accumulato altri meriti. Alla faccia di Barack Obama e di Matteo Renzi che da Milano hanno lanciato il loro auspicio: «Saranno i giovani a fermare l’onda populista che preoccupa il mondo». Per ora, parole.
Da anni, nel mio piccolo, inseguo un sogno, e già una volta da queste colonne - naturalmente inascoltato, e vabbè - lanciai un messaggio a Renzi appena arrivato a Palazzo Chigi. Speravo che puntasse all’obiettivo numero uno: creare nuovo lavoro. Ma anche che, in nome della “discontinuità” e del “cambiare verso”, parole d’ordine che ne avevano accelerato l’ascesa, il capo del governo lasciasse da parte l’eterno manuale Cencelli o i richiami di clan e scegliesse grand commis di Stato e manager pubblici fidandosi solo di trasparenti criteri di merito. Da un’inchiesta dell’Espresso era emerso inoltre che ogni anno più di 5 mila laureati eccellenti degli atenei italiani prendevano la via dell’estero alla ricerca di un’occupazione che qui non trovavano. E così è tuttora. Vanno a ingrossare un esercito di quasi 5milioni di italiani che forse pensano di non tornare più, visto che prendono la residenza del Paese che li ospita.
Così mi permettevo di lanciare una provocazione, più o meno con queste parole: selezionare dieci, cento di questi ragazzi diventati manager, banchieri, docenti a Londra, a Parigi o a New York e riportarli a casa rifondando con loro la prima linea della macchina statale, affidando loro aziende pubbliche, banche, ruoli istituzionali, scegliendoli per merito e per curriculum e pagandoli il giusto. Un segnale inequivocabile per mostrare ai giovani che c’è ancora la possibilità di lavorare qui; e agli italiani che la casta degli intoccabili può essere sostituita da una squadra di eccellenze. E invece, tranne benemerite eccezioni, per lo più fu “giglio magico”.
In verità qualcosa si è mosso: il ministro Dario Franceschini, per esempio, ha ignorato i vecchi criteri di cooptazione e ha designato alla guida di importanti istituzioni culturali sette manager stranieri che ora stanno lavorando con successo e buoni risultati. Le polemiche che ne sono seguite, alimentate da sciovinismi di ritorno e insurrezioni corporative, provano che ha colto nel segno. Ma è ancora poco: se avesse scelto qualcuno degli italiani che brillantemente dirigono musei e istituzioni culturali all’estero (non c’è solo il caso della National Gallery affidata all’italo-britannico Gabriele Finaldi, apprezzatissimo a Londra e altrove) l’effetto sarebbe stato assai più dirompente.
Il problema infatti non è solo risarcire giovani in fuga e riappropriarsi di un capitale accumulato pazientemente in anni di scuola e università e poi regalato ad altri; ma cominciare a selezionare una nuova classe dirigente al posto della attuale del tutto impreparata alle sfide nuove, e decisiva nel contribuire a fare dell’Italia l’anello debole dell’Europa che verrà. Insomma, non bisogna tanto rottamare, ma rifondare. Del resto, proprio l’inadeguatezza delle classi dirigenti ha allargato il solco tra cittadini ed élite, tra rappresentati e rappresentanti favorendo fughe populiste: è il tratto della stagione che viviamo. E niente è stato fatto per arginare la crisi, anzi: alla scomparsa delle tradizionali scuole di formazione (i grandi partiti, le imprese pubbliche, il sindacato) si sono aggiunte leggi elettorali scritte apposta per favorire nominati, cacicchi e fedelissimi. Della nomenklatura pubblica si è detto. E in quanto alle università, bastino le centinaia di segnalazioni all’authority di Raffaele Cantone contro le parentopoli dilaganti ?nelle cattedre e negli incarichi.
Ecco perché, provocatoriamente, bisognerebbe andare a scegliere il capitale umano lì dove è emigrato e riportare qualcuno a casa, almeno per un po’. Se non altro per dare un segnale, cominciare a ricostruire, e seminare tra i giovani il seme di una pianta rara e preziosa: l’ottimismo.
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