C’è una parola che premier e ministri pronunciano con particolare voluttà: tesoretto. Ogni tanto, sorpresa!, spunta una bella sommetta, qualche miliardo rimasto nascosto in una piega di bilancio. Moderno deus ex machina, questo salvadanaio misterioso sembra nato apposta per risolvere guai, accendere speranze, alimentare illusioni. Poi, da un giorno all’altro svanisce, o si ridimensiona. Metafora di eterne inconcludenze, lascia intravedere mirabilia che alla fine si dissolvono. Ci si potrebbe consolare con illustri precedenti. Forse il primo a evocare un tesoretto fu Romano Prodi, 2007, subito smentito dal suo ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa. Sorte simile toccò a Silvio Berlusconi, 2011, che finì ?per litigare con Giulio Tremonti mentre gli italiani si impratichivano con lo spread. ?Non sfuggì alla tentazione nemmeno ?Mario Monti, 2012, ma le famiglie cui era destinato non videro un euro. Un anno dopo lo rispolverò Enrico Letta per evitare un aumento dell’Iva. E ora è la volta di Paolo Gentiloni e di chi verrà dopo di lui visto che, come ripetono Boschi & C., il governo Renzi avrebbe lasciato in eredità 47,5 miliardi ?per investimenti pubblici e infrastrutture. Chiamandolo tesoretto. Appunto, ?si ricomincia.
Allora, per fare chiarezza. La cifra si riferisce a disponibilità da qui al 2032, più o meno tre miliardi l’anno. E va bene. Però, decidere di spendere una somma non vuol dire farlo, e quasi sempre nemmeno averla. Tant’è che nel 2016, nonostante le buone intenzioni scritte sulla carta, gli investimenti pubblici sono addirittura diminuiti (del 4,5 per cento). Insomma, posso pure mettermi in testa di comprare l’anno prossimo una Ferrari, ma questo non vuol dire averla in garage, prima devo trovare i soldi da dare al venditore, e pure il garage. Tornando a noi, per rimediare ciò che serve in un paese come l’Italia, afflitto da un debito pubblico monstre, o si tagliano altre voci di spesa ?o si chiede aiuto ai contribuenti (tasse). Non si scappa. Dove prenderli? Boh.
Dunque, il mirabolante tesoretto per ora non c’è, la necessità di mettere a posto ?le cose, sì. Però poco o niente si decide. Adesso l’importante è votare subito, no?, anche se il rischio è ritrovarsi l’indomani senza una maggioranza, e magari andare ?di nuovo alle urne dopo un anno, modello Spagna, che però, zitta zitta, in questi anni ha ripreso a crescere, ha cominciato a sistemare i conti e aumentato di un bel po’ i posti di lavoro. L’Italia no: ultima per crescita e prima per disoccupazione, ha subìto l’ennesima bocciatura delle agenzie di rating - Fitch, Moody’s, Dbrs - che invece promuovono Spagna e Portogallo. ?E in più, per l’ansia da elezioni e i tempi stretti, si rischia ora una finanziaria abborracciata o addirittura l’esercizio provvisorio di bilancio, che è quanto di peggio ci sia per seminare il panico tra ?i risparmiatori e nelle cancellerie d’Europa.
Calcoli prudenti dicono che la manovra per il 2018 sarà di almeno 45 miliardi. Tanti. Monti si fermò il primo anno a 34,4 e a 37,8 il successivo, Renzi a 36. È che si sono accumulati un sacco di impegni dilazionati nel tempo. L’anno scorso, per esempio, Bruxelles ha concesso all’Italia ulteriori margini di flessibilità, cioè la possibilità di rinviare di un anno il rispetto dei parametri concordati con la Ue per contenere il disavanzo. Ma non è un regalo, è una specie di assegno post datato: prima o poi bisogna onorarlo, no? Così ora, per rimetterci in regola, occorrono una ventina di miliardi (19,5); dieci per impegni non rinviabili (difesa, sicurezza, immigrazione, terremoto); altri 15 per evitare le cosidette clausole di salvaguardia: se spendi senza copertura, l’Ue ti obbliga a trovarla aumentando le tasse (Iva). Si potrebbe ovviare roteando l’accetta, ma questa sembra ogni volta una “mission impossible”, e sempre pericolosa perché misure troppo pesanti potrebbero frenare una crescita ?già stentata.
Eppure, come dice Mario Draghi, l’unica strada sicura per controllare i conti è proprio la crescita dell’economia. Dal 2008 a oggi, invece, il pil ha segnato un misero più 0,4 per cento, il debito pubblico ha sfondato quota 2262 miliardi e i relativi interessi costano ogni anno 66 miliardi. Trovare acquirenti per i titoli di Stato, cioè per finanziare il debito, è sempre più difficile: le famiglie preferiscono i fondi e gli investitori stranieri scappano se vedono incertezza in politica e paralisi in economia. Finora una mano ce l’ha data Draghi che rastrella ogni mese titoli pubblici al posto del sistema bancario, ?e per un po’ continuerà a farlo anche se vede in Europa – tranne che in Italia – segni concreti di ripresa. Ma che succederà quando tra qualche mese ?la Bce chiuderà il rubinetto? Le banche ?già tremano.
Insomma, ci piomberanno addosso, e tutte insieme, questioni irrisolte da anni e non sarà più possibile dare a intendere che si possa fare tutto e il contrario di tutto senza fare niente: per esempio arginare il debito senza aumento di tasse o senza tagli di spesa; o rispettare alla lettera i diktat europei (i 19,5 miliardi di correzione) confidando che l’economia corra lo stesso. La discussione fresca fresca tra ministri sull’aumento dell’Iva previsto dalla recente manovra correttiva, ridotto rispetto alle necessità, dimostra che comincia a farsi strada una consapevolezza nuova, ma che la strada verso responsabilità e trasparenza è ancora lunga. E invece bisognerà scegliere: puntare sulla bonifica dei bilanci o su lavoro e crescita? Ma tutto tace, nessuno ne parla, e invece ci ?si dilania al bar e a Montecitorio su proporzionale e soglie di sbarramento. Sarà un’estate rovente. Figuriamoci se dovesse coincidere con la campagna elettorale.
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