La danza dei numeri sulla legge di bilancio dura tutto l’anno. Si scalda d’estate per alimentare le polemiche. Ma tanto chi decide è Draghi
C’è Lucifero e c’è Caronte. E c’è pure una valanga di numeri. Complicati, talvolta astrusi, quasi sempre inattendibili. Ma comunque ansiogeni. E sì, l’agosto all’italiana contempla pure la defatigante discussione sulla manovra economica che verrà, che sarà dura, forse durissima, chi può dirlo, di 15, 20 o 25 miliardi, chissà, e saranno tasse o tagli e sforamenti di deficit e via divinando. La verità è che di conti pubblici si parla tutto l’anno senza arrivare mai a conclusioni certe, tranne il giorno - a dicembre - che il bilancio dello Stato finisce in Gazzetta ufficiale e diventa legge. Allora sì che si capisce di che morte moriremo nell’anno che verrà.
Ma il gioco dell’oca non si ferma, ogni volta si ricomincia. Perché a primavera, come quest’anno, a manovra segue correzione, poi nuova previsione, in attesa delle osservazioni di Bruxelles, del responso sulle clausole di salvaguardia (l’obbligo di aumentare l’Iva quando gli impegni di bilancio dell’anno prima non siano stati rispettati) e soprattutto del definitivo dato di crescita dell’economia perché per ogni decimale in più o in meno ballano miliardi (1,5). Insomma, un inferno. Altro che Caronte.
Si dirà: non è così dappertutto, stesso rituale in ogni cancelleria della vecchia Europa? In parte sì, ma anche no perché l’Italia vive da decenni nel ruolo ingrato dell’osservata speciale per via di un debito monstre, di una crescita ridotta al lumicino e di un’instabilità politica come condizione costante. Con queste premesse, è impossibile anche solo stendere un programma credibile e duraturo e ancora di più operare scelte drastiche: tagliare la spesa o tagliare le tasse? Ridurre il debito o spingere sugli investimenti pubblici? Insomma, prima il risanamento o gli incentivi per la crescita? In attesa di una risposta, si vive in perenne emergenza. Ormai da decenni: dai 90mila miliardi di lire di tagli in una notte di Giuliano Amato (di cui qualcuno parla oggi, ma guarda un po’, come possibile premier in caso di crisi improvvisa…) ai tormenti di Pier Carlo Padoan, passando per Giulio Tremonti e Mario Monti di cui ancora si ricordano la manovra salvifica e i sacrifici conseguenti e duraturi.
Nel frattempo, non c’è previsione che superi la prova dei fatti: si dice una cosa, poi immancabilmente ne succede un’altra. Tre anni fa, per esempio, gli accordi con Bruxelles ci obbligavano a fissare il disavanzo - il nostro incubo, la nostra linea del Piave - per l’anno successivo, il 2015, all’1,8 del pil: ma poi, tra aggiornamenti e consuntivi, si arrivò al 2,9. Stessa solfa l’anno dopo: secondo il piano ?di rientro concordato con gli occhiuti censori europei avremmo dovuto raggiungere nel 2016 quota 0,8 e invece alla fine siamo rimasti inchiodati al 2,4. Per noi la cosidetta flessibilità più o meno motivata - terremoti, stagnazione, emergenza migranti - non è stata l’eccezione conquistata alzando la voce al tavolo delle trattative con la Commissione europea, ma una regola. Comunque uno sconto di alcune decine di miliardi. Ma tant’è, ogni volta si torna ?al punto di partenza.
Quest’anno, per esempio, visto che a primavera la nostra brava correzione l’abbiamo fatta, mancherebbero all’appello solo 15 miliardi, si dice: una decina dovrebbero servire ad annullare le clausole di salvaguardia ed evitare che aumenti l’Iva; e poi ?si dovrebbe continuare a ridurre ?il disavanzo: tabelle alla mano ci vorrebbero ancora una quindicina ?di miliardi, ma a quanto pare Padoan avrebbe convinto i tecnici della Commissione ad accontentarsi di molto meno, 4-5 miliardi. E così si arriva a una manovra di 15 miliardi: così è scritto sulle bozze che girano, ma la verità la scopriremo ?solo vivendo.
E dunque, visto che bisogna aspettare i dati sulla crescita, il gettito fiscale, il placet dell’Europa, a che cosa serve tutto questo agostano balletto di numeri? Ad alimentare il gran teatro della politica, verrebbe da dire, e non si sbaglierebbe di molto. Anche perché se c’è un’emergenza economica, ce n’è pure una politica. Del governo di Paolo Gentiloni, per esempio, si diceva all’inizio che sarebbe durato
l’espace d’un matin , e invece eccolo lì ancora ?in piedi anche e soprattutto in nome ?di una manovra economica che solo un governo nelle pieno delle sue funzioni può predisporre e firmare.
Passato l’agosto del caldo e degli incendi tornerà la tensione nelle aule parlamentari, non sarà finita l’emergenza migranti e nemmeno l’inchiesta sulle Ong, si tornerà a dividersi sullo ius soli. A novembre si voterà in Sicilia dove, a giudicare dalle trattative in corso per liste e candidati, sembra che il tempo si sia fermato agli anni Cinquanta. Il risultato, è successo altre volte, non sarà ininfluente sul destino degli stentati equilibri romani. In piena sessione di bilancio chissà se si troverà il tempo per parlare ancora di proporzionale e premio di coalizione. Intanto saremo nel pieno di una campagna elettorale che rischia perfino di consegnare il paese a Matteo Salvini e a Beppe Grillo.
Matteo Renzi, che nel tour da Verona ?a Napoli a Capalbio ha giurato eterno amore al governo Gentiloni, non perde però occasione per chiedere a Padoan ciò che Padoan non vuole dargli: il taglio delle tasse; e a Bruxelles ciò che Bruxelles non può dargli: più disavanzo (2,9 del pil) per cinque anni per spingere sulla crescita. Il governo frena e immagina una manovra necessaria ed essenziale senza voli ?né scossoni. Perfino i transfughi del Pd, frammenti di una sinistra disorientata, sfruttano numeri e percentuali dicendosi disposti a votare la manovra in Senato, dove la maggioranza è appesa a un filo, solo ?in presenza di forti discontinuità con un passato di tagli e austerità. Nelle condizioni date, è come annunciare voto negativo. Forse anche per questo si è saldata una nuova alleanza Padoan-Gentiloni benedetta da Sergio Mattarella che della manovra e del governo si è fatto garante. Tensione. Confusione. Per capirne di più, aspettiamo l’autunno. ?E magari rassegniamoci all’idea che ancora una volta deciderà per noi Mario Draghi quando, non per sua scelta ma per scadenza di legge, smetterà di comprare titoli di stato ?per 60 miliardi al mese.
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