Opinioni
29 marzo, 2020

Svevo e Joyce amici freudiani

Il rapporto personale fra i due scrittori, l’influenza reciproca, Trieste, la psicoanalisi. Un libro ripreso sugli scaffali in tempi di confino domestico

Confinato in casa, messo agli arresti domiciliari dal virus, la biblioteca è diventata un rifugio, un angolo rilassante. Vi avevo dimenticato tanti libri amici, riposti sugli scaffali senza essere neppure sfogliati, ridotti a oggetti decorativi. Mai letti. Per rimediare all’affronto fatto a tanti autori avrei bisogno di un’altra vita. Aggancia la mia attenzione una voluminosa biografia acquistata con slancio anni fa e poi abbandonata intonsa su uno scaffale. È il “James Joyce” di Richard Ellmann. Quel che mi spinse a comperare il volume fu anche la certezza che nelle ottocento pagine il critico letterario americano avrebbe raccontato il rapporto tra James Joyce e Italo Svevo, cominciato nella Trieste ancora austriaca, negli anni precedenti alla Grande Guerra.

In molti si sono occupati delle relazioni tra i due scrittori, l’irlandese e il triestino. Ho letto le loro opere con passione, trovando le prime esplosive e le seconde introverse. Le prime rivoluzionarie rispetto alla letteratura dominante, le seconde altrettanto impegnative, almeno in parte per l’irruzione della psicoanalisi, che non è certo estranea alle opere di Joyce. Rievoco le impressioni di un giovane, inesperto lettore, lontano dalla critica letteraria, quale sono rimasto. Un lettore primitivo. Ed ecco adesso il lettore primitivo, separato dal resto del mondo da un virus invisibile, preso dall’interesse per la lunga non semplice amicizia tra i due scrittori che un tempo l’hanno rapito. Il rapporto è un capitolo della storia della letteratura del Novecento. La curiosità per quel passato mi porta fuori dall’attualità indesiderata.

C’era tra loro una stretta amicizia, che, come spesso le amicizie tra esseri umani con interessi e ambizioni comuni, aveva tante crepe. In “James Joyce and Italo Svevo” Stanley Price racconta la storia di quell’amicizia senza sottovalutare quel che differenziava i due scrittori nella letteratura come nella vita. Si conobbero nel 1906 a Trieste dove il più giovane dei due, Joyce, insegnava inglese. Joyce era un cattolico miscredente, comunque non praticante. Svevo un ebreo altrettanto non praticante. Neppure gli stili di vita coincidevano. L’irlandese era sempre senza denaro ed era un bevitore a uno stadio avanzato. Sull’orlo dell’alcolismo. Era un personaggio spesso intrattabile. Era permaloso. Superbo. Mentre il più anziano triestino era benestante, anche grazie alla moglie, ed era un gran fumatore. Era generoso e fedele nelle amicizie. In comune avevano il tardivo successo letterario. L’“Ulisse”, opera maggiore di Joyce, fu pubblicato nel 1922 dopo avere superato tante difficoltà. “La coscienza di Zeno” quattro anni dopo, nel ’26, e due prima della morte di Svevo. Il triestino confessò che i suoi due primi libri, “Una Vita” e “Senilità”, erano rimasti clandestini. Nessuno se ne era occupato. Né i cronisti e tanto meno i critici. L’irlandese li lesse ed esortò l’incerto Svevo a continuare a scrivere. Fu una spinta non solo generosa. Era sincera. Ed ebbe effetto.

Sia Svevo sia Joyce avevano in comune una concezione del mondo, quella dell’uomo tormentato dal dubbio e dall’ansia nel cercare risposte ai numerosi interrogativi sul significato della vita disseminati lungo la sua strada. Entrambi illustrano, col loro stile, le debolezze della natura umana, ma dalla quale non è mai estirpata del tutto la volontà di superare il mediocre e il grigio. Ci sono tracce di Svevo nel Leopold Bloom dell’“Ulisse”. E in altri personaggi di Joyce c’è chi ha trovato tracce di Livia Veneziani, la moglie ricca di Svevo. E dei suoi lunghi capelli.

Quando l’irlandese frequentava il Caffè San Marco, a Trieste, le teorie psicanalitiche di Sigmund Freud esercitavano una forte influenza sugli intellettuali. Lui, l’irlandese, e ancor più l’amico triestino in “La coscienza di Zeno”, riconoscono il loro debito con Freud. Volumi sono stati scritti sull’ argomento, nel secolo alle nostre spalle. Ma Svevo e anche Joyce erano interessati alla psicanalisi come tecnica d’indagine dei meccanismi dell’animo. Non come terapia. Un ultimo appunto in questa semplice rubrica dedicata a un grande tema: senza Joyce, forse, i lettori avrebbero tardato ad aprire i libri di Svevo il quale ha ampliato, come è stato scritto, il nostro orizzonte umano, e anche quello letterario.

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