Il blackout delle piattaforme ha dimostrato quanto siano necessarie. E se domani accadesse per una decisione politica, non abbiamo un piano B

Con ogni probabilità non ci verrà mai detto qual è stata la vera ragione per cui tutte le piattaforme di comunicazione appartenenti a Mark Zuckerberg la settimana scorsa sono andate in blackout mondiale in simultanea per la durata mediaticamente enorme di sette ore. Chi non aveva Telegram o Signal non ha potuto scambiarsi messaggi se non sms - «è stato come cercare le candele quando manca la luce», ha commentato Luca Sofri - né abbiamo potuto mostrare al mondo la parte di noi che abbiamo scelto di rappresentare a tuttǝ, tantomeno impicciarci di quella che mostravano altrǝ.
 

Il padrone di Facebook, Messenger, Instagram e Whatsapp dovrà dare aglǝ azionistǝ una giustificazione molto credibile di quel che è successo, ma le cose che si sono potute osservare in quelle ore sono utili da capire anche per chi non abbia interessi diretti nella comunicazione digitale. La frase più interessante è stata «È venuto giù internet». È un’affermazione iperbolica che però esprime una verità oggettiva: per milioni di persone, soprattutto tra i quaranta e i sessant’anni - quelle piattaforme e internet sono la stessa cosa. Se spegni uno, l’altro non esiste, in particolare Facebook, che in questi anni è stata la principale piattaforma di mediazione della rete per i babyboomers, il punto di snodo del traffico di tutto il resto. Senza Facebook a fare da vigile urbano agli incroci, molto del flusso di utenti di mezz’età delle piattaforme di informazione tradizionale semplicemente non esisterebbe. L’osservazione è più rilevante se si considera che Facebook fa qualcosa di più che diffondere le informazioni: le sceglie, gerarchizzandole in base al profilo di ciascunǝ. Il suo algoritmo fa quello che una volta distingueva le persone socialmente mature dalle altre: il discernimento.

Per sette ore siamo statǝ costrettǝ a scegliere senza il pilota automatico e per qualcunǝ magari sarà stata una sorpresa. Facebook la cernita dei contenuti la fa infatti a modo suo, fornendo a ciascunǝ non quelli più rilevanti, ma i più vicini ai suoi interessi già manifesti, creando intorno a ogni utente quello che tecnicamente si chiama bolla, la zona protetta dove ti viene ripetuto solo quello che già sai da parte di persone che già conosci. La possibilità di essere sorpresi è minima, perché lo spazio della piattaforma è strutturato per essere confermativo e far sì che nessunǝ provi un fastidio tale da volersi spostare altrove.

Per l’utente mediǝ di Facebook trovarsi davanti a internet senza la presenza rassicurante della nave madre è stato come uscire di colpo nello spazio siderale sconosciuto senza avere la più pallida idea di dove dirigersi. Edward Snowden, da sempre critico sui risvolti di controllo sociale dell’algoritmo di Zuckerberg, potrà anche avere ragione nel dire che «per sette ore il mondo è stato un posto più sano», ma per la maggioranza delle altre persone il senso di spaesamento e la crisi di astinenza da rassicurazione sono stati tali che il social cinese TikTok - il più ostico da usare per chi è nato prima degli anni 2000 - nella giornata del blackout ha registrato un picco di iscrizioni pari a quello di un mese.

Significa che siamo scimmie drogate dal telefonino? È un giudizio miope: il gesto di scorrere lo schermo si fa col pollice opponibile e se anche le piattaforme di relazione appaiono post-umane nella tecnologia, sono ancora umanissime nel risultato; per questo il vuoto più complesso da gestire è stato quello di Whatsapp, perché ha reso evidente che abbiamo appaltato a un privato non particolarmente affidabile anche la gestione del flusso dei nostri sussurri più riservati. A generare questa afasia stavolta è stato un problema tecnico, ma domani potrebbe essere la volontà di un governo o la stessa azienda privata che gestisce le piattaforme a decidere che da un momento all’altro possiamo essere sfrattati dai canali di comunicazione che ci siamo abituati a considerare servizio pubblico. La nostra disperata voglia di connessione continua è irreversibile ed è evidente che, se venissero di colpo a mancare gli strumenti che abbiamo, nessuno di noi avrebbe un piano B.