Ricordo del grande giornalista tra i carri armati sovietici che misero fine alla Primavera cecoslovacca. Direttore del Tg1, fu allontanato da Berlusconi

Non c’era una camera d’albergo libera nel centro di Praga in quell’estate del ’68. Subito dopo il 20 agosto legioni di giornalisti occidentali si erano riversate nella capitale cecoslovacca appena occupata dai carri armati sovietici, da Malastrana alle rive della Moldava, venuti a salvare il comunismo, minacciato, secondo Mosca, dagli stessi dirigenti comunisti di Praga affascinati dall’azzardata idea di far convivere il loro regime con la democrazia. Quella che era una nobile illusione a Praga, era per Mosca un’eresia da risolvere con un’intimidatoria irruzione di mezzi corazzati dai quali spuntavano i cannoni che già avevano represso gli indisciplinati ungheresi dodici anni prima a Budapest. Noleggiai un’automobile a Vienna e varcai il confine non ancora controllato dall’Armata Rossa. Incrociai autoblindo isolate che con inaspettata cortesia si spostarono per lasciare spazio alla mia utilitaria: un giocattolo al confronto delle masse d’acciaio ben educate, per il momento, in mezzo alla deserta campagna mitteleuropea. Gli invasori rispettavano il codice della strada. Arrivai in piazza Venceslao, nel cuore della capitale, dove i blindati sovietici erano già parcheggiati, con gli equipaggi che emergevano a mezzo busto per discutere con la gente assiepata attorno a loro. Migliaia di giovani praghesi circondavano i carri armati come se volessero paralizzarli e chiedevano in coro, con frasi provocatorie, ma non insultanti, che cosa fossero venuti a fare tutti quei soldati. I sorrisi degli invasori, destinati a esprimere una falsa amicizia, si scontravano col sarcasmo e la collera dei manifestanti. C’era rabbia ma anche ironia nella protesta. La scena sembrava ispirata dal romanzo nazionale, “Il buon soldato Sc’véik” , di cui sono protagonisti humor e pacifismo, in quanto oppositori della prepotenza. Lo spirito di Praga.

 

È passato più di mezzo secolo e ricordo come incontrai per la prima volta, in quelle ore, Dimitrij (cosi ho quasi sempre chiamato Demetrio) Volcic. E da allora siamo rimasti amici, fino alla sua morte qualche settimana fa a Gorizia. La morte fa riaffiorare nella memoria lontanissimi avvenimenti che parevano sepolti per sempre nel passato. Anche se avevano contato nella vita. In quell’agosto del ’68 mi sembrava d’avere già visto Dimitrij, ma non ne ero certo. Nei giorni di Praga non aveva ancora conquistato la popolarità con l’intelligenza e il suo rarissimo elegante stile di cronista televisivo. Lo sentii parlare, in pochi minuti, in almeno cinque lingue, ma in effetti ne conosceva sei. Due lingue slave gli servivano per dialogare con i manifestanti praghesi e con i militari russi; l’inglese, l’italiano e il tedesco per tradurre le agitate conversazioni tra i giornalisti di varie nazionalità e i carristi sovietici, che non erano dei poliglotti. In prossimità dell’Hotel Alcron c’era una ressa cosmopolita e nevrotica: e nel mezzo stava quell’uomo alto e disinvolto che con un microfono in mano si prodigava nel fare da interprete ai colleghi di varie nazionalità. Più di mezzo secolo dopo nel mio ricordo, prosciugato dal tempo, Dimitrij era il primo attore di quella scena caotica e tragica. E anche storica. In queste ore, tanto vicine alla sua morte, lui resta per me, nella mia memoria, l’eroe di quegli avvenimenti. Anche se in realtà non mancarono molti altri uomini coraggiosi. E indignati.

 

Lo conobbi più tardi nella notte, quando ci ritrovammo all’Hotel Esplanade sempre con i carri armati sovietici alla porta. Era uno dei suoi primi servizi all’estero. Italiano di origine slovena, nato a Lubiana (dove la famiglia aveva traslocato da Trieste per evitare il fascismo), aveva fatto per anni il cronista sportivo. Alla Rai di Trieste i giornalisti come lui, negli anni di forte nazionalismo italiano, nella città a lungo contesa, venivano difficilmente ammessi nei servizi politici e piuttosto relegati in altri settori. Grazie alla lealtà di Guido Botteri, capo della sede della tv triestina, e al direttore del telegiornale Fabiano Fabiani, Dimitrij superò tutti gli ostacoli sciovinisti e in quei giorni d’agosto, con gli ottimi servizi da Praga, cominciò una rapida carriera in tanti Paesi dell’Est europeo. In particolare fu a lungo corrispondente a Mosca. Ma anche a Bonn, a Vienna e in altre capitali. Fu anche direttore del Tg1 per un anno, fino a che Silvio Berlusconi, appena diventato presidente del Consiglio, lo degradò. Voleva un uomo suo, con le sue idee. Dimitrij diventerà poi senatore della Repubblica e deputato (sempre di sinistra) al Parlamento europeo. Non gli sono mancati gli incarichi nell’insegnamento universitario. Era un discreto giocatore di scacchi, e mi ha sempre dato il matto. Ciao Dimitrij.n

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