Mario Dondero era un finto timido. E anche un finto modesto. Parlo di lui come fotografo. Fino alla vigilia della morte, avvenuta sei anni fa in un paese delle Marche (Petritoli), era impegnato a fare progetti. Con quel poco fiato che gli restava mi annunciò gli imminenti viaggi che avrebbe fatto e mi chiese un parere sui servizi fotografici che aveva in mente. Gli capitava spesso persino di chiedere il permesso di fotografarti, dopo più di mezzo secolo di frequentazione professionale e poi d’amicizia, sconfinante nella complicità. Nascondeva la naturale sfrontatezza dietro una timidezza e una modestia che non erano di maniera. Era un’insolita convivenza di atteggiamenti contrastanti. Il fotografo deciso, sfrontato, aveva un comportamento gentile, rispettoso; l’uomo spesso trasandato, aveva un’eleganza, anche nei tratti, alla quale non erano insensibili le sue amiche. Quel giorno nel paese delle Marche, dove lo curava la compagna Laura Strappa, assecondando col sorriso quelli che erano ormai i suoi deliri, Mario mi invitò a lavorare ancora con lui, anche se non capitava da anni. Approvai la sua proposta, pur sapendola irrealizzabile. Mi riusciva tuttavia difficile immaginarlo vicino alla morte benché avesse, oltre il male incurabile, ottantasette anni.
Pensare che l’età non pesi sui fotografi è una sciocchezza della quale sono convinto. Mi sembra che non invecchino mai. Nel caso di Mario Dondero, come di tanti altri colleghi, erano le sue fotografie che assumevano gli anni. Invecchiavano, e invecchiando acquistavano valore, diventavano testimonianze autentiche di un’epoca. Penso che il cronista autentico sia il fotoreporter. La sua testimonianza è, più di qualsiasi altra, l’immagine della realtà. La parola stampata su giornali o riviste è più fragile. Più esposta alle mistificazioni. Non costringe al rischio. L’ho scritto più volte non temendo di slittare nella retorica: il fotoreporter è un cavaliere solitario. La cronaca è un artigianato. La cronaca attraverso la fotografia è l’artigianato che più si avvicina all’arte.
Sua moglie, Anne Duchesne, morta vent’anni prima di lui, era una storica francese assistente di Fernand Braudel. Una donna riservata. Non chiedeva al marito dove fosse o dove stesse andando. Era una militante comunista, bella nella sua elegante semplicità popolare. Mario poteva essere in una strada di Parigi, vicino al Circo d’inverno, dove abitava, o poteva essere nel Ghana. Quegli spostamenti improvvisi non preoccupavano Anne. Le stravaganze del marito italiano piacevano alla storica parigina.
Nel Ghana, a un italiano amico capitò di trovarsi sull’itinerario di Mario Dondero. Se ne accorse perché in un albergaccio della regione degli Ashanti, appena seppero che era italiano, gli chiesero se conoscesse Dondero («Do you know Dondero?»). Mario non aveva pagato il conto, dicendo che avrebbe incaricato qualcuno di saldarlo. Era una nota modesta, e fu pagata dall’italiano di passaggio come se fosse stato lui l’incaricato. Conosceva Mario e lo sapeva sbadato. Era un suo lato simpatico. Imprevedibile.
Amava l’Africa, vi andava spesso. Una volta capitò in Guinea dove il dittatore Sekou Touré aveva appena sventato un colpo di Stato. Mario, che ammirava i capi africani senza distinzione, purché non fossero compromessi col colonialismo non del tutto defunto, arrivò a Konakry quando ancora gli uomini di Sekou Touré davano la caccia ai golpisti. Fu preso per uno di loro e imprigionato. Rischiò di essere fucilato. A salvarlo fu l’ambasciatore italiano. Mario non si lasciò impressionare. Continuò ad amare i politici africani. In particolare, i rivoluzionari radicali. Ne aveva sempre qualcuno sottomano a Parigi negli anni Sessanta e Settanta. E puntualmente me li presentava. Arrivava nella piccola redazione sui Campi Elisi, dove lavoravo, in compagnia di un senegalese, un nigeriano, un etiope, un algerino, e me li presentava come dei rivoluzionari esuli o clandestini.
Mario Dondero aveva tante anime che convivevano in lui. Alla passione per il mestiere di fotoreporter, che per molti anni non gli aveva reso economicamente facile l’esistenza, univa un’ampia generosità verso gli amici. La generosità dell’amicizia. Quando viveva le ultime settimane di vita nel paese sulle alture marchigiane era ormai da tempo riconosciuto come un grande fotografo. Ma non era poi tanto lontano dal giovane di quarant’anni prima che con fatica riunì un giorno tutti gli attori della Comédie Française, per fare una copertina della rivista Sipario. Andò all’appuntamento senza un solo rullino, perché non aveva soldi per comperarne. Quindi finse di scattare fotografie con l’apparecchio vuoto. Davanti alla sede delle Editions de Minuit riprese invece sul serio gli scrittori del Nouveau Roman riuniti: da Samuel Beckett ad Alain Robbe-Grillet a Claude Simon. Mario aveva molti amici tra gli scrittori francesi, dei quali ha fatto numerosi ritratti.