Europa oggi
Senza la tecnologia, Vladmir Putin è in difficoltà. E la mancanza di componenti avanzate colpisce soprattutto le forze armate. Si tratta di una politica che funziona e che dovrebbe essere rafforzata
di Guntram Wolff
Già nel 2014, dopo l’annessione della Crimea, la Russia è stata sottoposta a un regime di sanzioni dall’Ue. Sebbene queste sanzioni non abbiano impedito a Putin di ordinare l’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022, nel loro insieme hanno indebolito in modo significativo la capacità della Russia di condurre una guerra. A nove mesi dall’inizio dell’invasione, risulta chiaro quanto le sanzioni abbiano danneggiato l’economia e le capacità militari della Russia. L’Italia, essendo un Paese europeo chiave, dovrebbe quindi mantenere e inasprire le sanzioni con i suoi partner per ridurre ulteriormente il potere militare ed economico del regime di Putin.
L’economia russa risente sempre più delle conseguenze della guerra. Il Fmi prevede un crollo economico russo del 6%. Secondo uno studio dell’Università di Yale, dall’inizio dell’invasione oltre 1.000 aziende occidentali hanno lasciato la Russia, invertendo circa 30 anni di investimenti stranieri. Queste aziende, con i loro ricavi ed investimenti, rappresentano circa il 40% del Pil russo e circa un milione di posti di lavoro. Oltre all’esodo delle aziende, si osserva anche una fuga di cervelli. Più di 500.000 russi hanno già lasciato il Paese, e di questi circa il 50% ha un alto livello di istruzione o, per esempio, ha lavorato come operaio specializzato nel settore tecnologico.
Si registrano inoltre sempre più perdite di produzione a causa della mancanza di materiali, fattori produttivi e tecnologie, soprattutto per quanto riguarda semiconduttori, chip e componenti di precisione. Sulla base dei dati forniti dai partner commerciali della Russia, si può notare che le importazioni russe sono diminuite fino al 50%. Le sanzioni non riguardano solo i Paesi sanzionatori (- 60% delle esportazioni), ma anche i Paesi non sanzionatori (- 40% delle esportazioni). L’esempio della Cina è particolarmente degno di nota: invece di far entrare sempre più aziende cinesi nel mercato russo, le esportazioni cinesi si sono ridotte del 50% (da 8 miliardi di dollari al mese a 4 miliardi). Pertanto, le sanzioni indeboliscono significativamente la base economica della Russia e, in particolare, impediscono l’accesso a tecnologie critiche.
Il mix di sanzioni severe nel settore tecnologico e il ritiro delle aziende high-tech occidentali ha un impatto concreto anche sulle forze armate russe. La Russia non può sostituire le perdite di materiale militare con sistemi d’arma di nuova produzione. Le sanzioni attuate nel 2014 hanno anche indebolito le forze armate russe a livello strutturale. Per esempio, hanno reso impossibile l’acquisizione e la produzione dei caccia stealth Sukhoi Su-57, dei bombardieri Pak Da e delle portaelicotteri francesi. Senza questi pacchetti di sanzioni, il corso della guerra contro l’Ucraina avrebbe potuto essere significativamente diverso.
I nuovi pacchetti di sanzioni stanno avendo un impatto sulle forze armate russe anche perché l’industria della difesa russa è ancora fortemente dipendente da parti e componenti importati dall’Occidente. Per esempio, la produzione di diverse armi moderne di difesa aerea (9K37 Buk, 9K22 Tunguzka) ha dovuto essere interrotta a causa della mancanza di elettronica importata; anche la produzione di missili da crociera H-101 soffre per la mancanza di componenti taiwanesi, olandesi, statunitensi e svizzere. Sebbene le scorte fossero immense, la Russia sta esaurendo le proprie risorse di missili da crociera moderni e non è in grado di reintegrare la produzione. La capacità di attacco di precisione di Mosca è già fortemente limitata.
Il ritiro di molte aziende occidentali ha quindi inferto un duro colpo, finora irreparabile, all’industria russa della difesa. Le forniture esistenti sono limitate o esaurite e i rifornimenti non possono essere prodotti autonomamente dalla Russia.
Le esportazioni di combustibili fossili sono state la spina dorsale del potere sovietico e rimangono centrali per il potere di Putin oggi. Le esportazioni di materie prime, in particolare gas e petrolio, rimangono la principale fonte di reddito della Russia, rappresentando fino al 60% delle entrate statali. Tuttavia, le sanzioni energetiche dell’Ue adottate finora non hanno ancora avuto un effetto significativo. Si pensi che la sola Ue ha pagato quasi 100 miliardi di euro per i combustibili fossili russi dall’inizio dell’invasione, pur continuando a soffrire per gli alti prezzi energetici globali.
Il problema principale è che le sanzioni sono state discusse a lungo, ma le restrizioni effettive alle importazioni sono arrivate molto tardi o sono ancora in sospeso. Da un lato, ciò ha permesso alla Russia di trovare nuovi clienti. Dall’altro le esportazioni verso l’Europa sono proseguite. Il continuo dibattito sulle sanzioni contro il più importante esportatore di gas e il secondo esportatore di petrolio al mondo ha fatto salire i prezzi del mercato mondiale. Nel frattempo, come previsto, Putin ha cambiato le carte in tavola e sta sanzionando l’Europa con una notevole riduzione delle sue esportazioni di gas. Gli alti prezzi dell’energia in tutta Europa - anche in Italia - non possono quindi essere attribuiti alle sanzioni, ma piuttosto all’esitazione dell’Ue in materia di sanzioni energetiche e all’ulteriore riduzione su scala globale dell’emissione di gas della Russia.
Nel complesso le sanzioni hanno indebolito in modo significativo le capacità economiche e militari della Russia. L’Italia e i suoi partner dovrebbero mantenerle e rafforzarle ulteriormente, soprattutto nel settore energetico, per continuare a sostenere l’Ucraina. Nel settore energetico, tariffe punitive sulle importazioni di energia russa sarebbero state un modo più efficace per ridurre rapidamente le entrate di Putin e mantenere i prezzi moderati, senza mettere a rischio la sicurezza energetica globale. Nel medio-lungo termine, tuttavia, è necessaria una svolta verde per porre fine alla domanda globale di combustibili fossili, principale fonte di reddito per molte autocrazie.
A cura di Amélie Baasner. Traduzione di Amanda Morelli e Nicholas Teluzzi
Guntram Wolff è direttore e amministratore delegato del Consiglio tedesco per le relazioni estere (Dgap). Fino a giugno 2022 è stato direttore del Bruegel Institute di Bruxelles. Insegna, fa ricerca e pubblica su temi di economia politica europea, cambiamenti climatici e geoeconomia, politica monetaria e fiscale