Il partito deve affrontare la discussione sempre rimandata su quale idea di società e quale missione si pone. I valori, la memoria, il segno antifascista devono restare decisi e intatti, ma da soli non bastano

Qualche tempo fa, non ricordo quando e dove, Pippo Civati scrisse parole feroci sul Pd, nel quale aveva vissuto anche da parlamentare, e dal quale era polemicamente uscito. Ricostruiva in poche, amare righe gli errori e le occasioni perse di un partito che ai suoi occhi sembrava rifiutarsi di cambiare passo, riflettere sul presente, immaginare un futuro diverso.

 

Ricordava dunque Civati che in pochi anni era più o meno successo che: il Pd aveva approvato una legge elettorale, l’Italicum, bocciata dalla Corte Costituzionale; aveva prodotto il Rosatellum per battere i 5S che invece le elezioni le vinsero; dopo il flop del referendum Renzi, sul quale s’era già spaccato (ma non erano tutti renziani?), il Pd aveva mandato a Palazzo Chigi Gentiloni in vista delle elezioni del 2018, poi perse clamorosamente; ha cambiato tre segretari, due dei quali - Renzi e Bersani - hanno fondato un altro movimento e il terzo, Zingaretti, ha lasciato con dichiarazioni di fuoco contro il suo stesso partito; il quarto segretario, Letta, si è appena dimesso, quindici mesi dopo il suo ritorno a Roma da Parigi dove si era esiliato per il golpe Renzi del 2014 («Enrico, stai sereno»); su spinta dei 5S il Pd ha detto sì alla riduzione del numero dei parlamentari, con l’impegno di cambiare la legge elettorale, e invece ha lasciato lì dov’era il Rosatellum con il quale è ora stato umiliato da Meloni e 5S.

 

Ah, i Cinque Stelle. Qui siamo al ballo del qua qua. Nel 2013 il Pd vorrebbe l’alleanza, ma viene irriso (streaming Bersani-Grillo); nel 2018 rifiuta ogni confronto con i grillini che scelgono la Lega e lasciano campo libero a Salvini (Conte I); ma un anno dopo il Pd è al governo (Conte II, e poi Draghi) con Salvini e con Berlusconi, che fu Caimano. Per Zingaretti Conte era «il punto di riferimento di tutte le forze progressiste»; per Letta, che gli succede, è uno dei giocatori nel cosiddetto “campo largo”. Poi i 5S fanno cadere Draghi e tutto cambia: no a Conte, sì a Calenda che firma un patto finché qualche suo sponsor gli fa notare che con Bonelli e Fratoianni proprio non si può. Il resto è Meloni.

 

Dal 2011 (premier Monti) il Pd è stato al governo per dieci anni. Nel 2008 contava 12 milioni e rotti di voti; nel 2018 la metà, da domenica 25 settembre 5 milioni e 200mila, altri 800mila in meno. Ora va al congresso per una «profonda riflessione» che avrebbe dovuto avviare almeno dopo la caduta di Renzi, certamente all’arrivo di Letta. Ma ogni volta c’era un’emergenza, un pericolo, e dunque la necessità di governare: in nome di una pur sacrosanta “responsabilità” il Pd si è fatto difensore del sistema, proprio mentre in tutta Europa montava la rabbia contro il sistema e arrivava la valanga populista.

 

Secondo un noto mantra, una crisi offre sempre un’occasione di rinascita. E vabbè. Ma non va sprecata, un congresso non deve servire solo a giustificare un nuovo leader e a scegliere tra Conte e Calenda. Quando nel 2007 Veltroni diede vita al Pd, il buon Emanuele Macaluso bollò l’operazione come «una fusione a freddo». Intendeva dire che per tenere insieme post Dc e post Pci prima si deve chiarire bene cosa si è e cosa fare, ma solo dopo aver condiviso una lettura dei cambiamenti della società, della missione del partito, scelto un posizionamento sociale e perfino le riforme, anche istituzionali, che si vogliono (nei dettagli, però, non a colpi di slogan).

 

Cercasi identità. Politica, sociale, culturale. Forse il simbolo più forte della débâcle 2022, che tutto riassume come in una metafora, è la sconfitta di Emanuele Fiano, figlio di un sopravvissuto di Auschwitz, battuto a Sesto San Giovanni, l’ex Stalingrado d’Italia, da Isabella Rauti, parlamentare super meloniana, figlia di Pino Rauti, già fondatore di Ordine Nuovo e segretario del Msi; o quello di Sant’Anna di Stazzema, luogo nel 1944 di una delle più feroci stragi nazifasciste, dove domenica Fratelli d’Italia e centrodestra hanno superato rispettivamente il 32 e il 49 per cento.

 

Ecco. I valori, la memoria, il segno antifascista devono restare decisi e intatti, e ci mancherebbe, del resto sono a fondamento della Costituzione sulla quale Meloni dovrà presto giurare, ma non possono essere più considerati l’unico segno con il quale ci si distingue e si vince, quasi costituissero - si può osare? - una rendita di posizione. È doveroso sventolare le bandiere del proprio Pantheon, ma esse devono ispirare e rinvigorire un’identità che nel giorno per giorno si deve nutrire anche di altre scelte. Altrimenti c’è solo un glorioso passato e un triste declino.